Virginia Woolf è uno dei più importanti esponenti di quel movimento creativo e di pensiero che, nella prima metà del ventesimo secolo, ha spostato l’attenzione dalla realtà esteriore al mondo interno, e di conseguenza ha posto fine alla “trama” tradizionale: l’evoluzione della psichiatria col suo spostamento del fuoco di interesse dagli agiti all’esperienza vissuta è stata a un tempo effetto e causa di questo più vasto cambiamento.
In questo filone Woolf, seguendo le orme di James Joyce (che peraltro non apprezzava, contrariata da certe “volgarità” di lui) ha ulteriormente sviluppato la modalità del flusso di coscienza, portandolo su un piano interpersonale grazie al continuo slittamento, anche senza preavviso, dall’uno all’altro dei personaggi. In quest’opera, le fantasie e pensieri di ciascuno vengono raccontati in rapide alternanze e successioni, tanto da rendere a volte difficile capire da quale personaggio provengano.
Nella Gita al Faro ci parla lucidamente e impietosamente di sé e del dolore mentale che l’ha sempre accompagnata (tecnicamente parleremmo di un disturbo dell’umore, ma quanto è misera una semplice diagnosi clinica in confronto a quanto l’Autrice ci offre di sé). La protagonista è una signora Ramsay, in cui si può riconoscere il ricordo della madre della Autrice ma che di fatto incarna lei stessa. Vuole realizzare una gita della famiglia al vicino Faro, anche contro l’evidenza del maltempo sottolineata dal piatto realismo del marito. Come è difficile comunicare, con lui e non solo con lui! Tutto ciò che arriva all’altro è deformato.
Da questo punto di partenza si intrecciano tanti temi. Alcuni sono come un basso continuo, che riemerge con decorso carsico.
Il Faro, nella realtà fisica e nel nostro immaginario, è una meta che è punto di riferimento e garanzia di salvezza: ma quando finalmente qualcuno – non la protagonista sig.ra Ramsay – lo raggiunge, rivela di essere nulla più che “una nuda torre su un nudo scoglio”.
La Stimmung depressiva è qui una costante, e il libro ce ne offre ripetutamente risvolti, prezioso aiuto alla comprensione di essa. Woolf lo dice esplicitamente e condivisibilmente: crede e dice che il malessere individuale, nel suo continuo confronto – conflitto con la vita, ci insegni molto su quel che siamo. Scompare l’espansività, il socializzare: resta un “interno cuore di tenebra” (evidente riferimento a un Conrad di pochi anni anteriore). L’immagine (fantasticata? reale? chi lo sa) di una casa in rovina introduce a sconfortanti vissuti di sfiducia: “ Non esiste un tradimento così vile che non venga commesso”… “che ho fatto della mia vita…cala sulle cose un’ombra che, togliendo il colore. le svela nella loro vera essenza”; solo ciò che è negativo è “vero”. “l’ombra, la cosa che li fasciava, stava richiudendosi intorno a lei”. L’ombra, colma di presenze inquietanti, divora tutto: eppure qualcuno ride, come “scherzando col nulla”: risposta maniacale? Le menti sono come ”pozze d’acqua inquieta, in cui senza soste passano ombre e nuvole”. Ma tuttavia, anzi proprio perciò, ricerchiamo difensivamente qualcosa di unico, duro, un diamante nella sabbia.
Momenti di sollievo sono legati solo al ritrarsi in una quotidianità ristretta, dove tutto può sembrare fermo e rassicurante. Ma dura poco: il gruppo si disintegra, la scena di unione diventa il passato. E’ qui che rende forma e ruolo il personaggio (direi un alter ego) di Lily, pittrice che ricerca una stabilità in ciò che appare mobile, e sistematicamente nella creazione artistica: ciò che è compiuto come lo è un quadro diviene “solenne” (sacro, intoccabile). Lily diverrà personaggio chiave nell’ultima parte.
L’incombente tema del suicidio si salda a un vissuto di solitudine, alimentato anche dalla radicale estraneità di un modo di pensiero maschile, descritto come cartesiano e privo di intelligenza emotiva. Parlando del freddo pessimismo del sig. Ramsay, si fa affermare alla moglie protagonista che “se pensasse solo la metà di quel che dice, si farebbe saltare le cervella”. Paragona l’intelligenza maschile a una armatura di travi di ferro intorno a un edificio vacillante: magari lo tiene in qualche modo in piedi, ma restandone estranea. Il marito sig. Ramsay è preso nei suoi libri, convinto che altri non farebbero mai meglio. Oppure si impegna in banali attività pratiche, e se non ha nessuno con cui parlarne è disperato “come un leone affamato”.
Ravvisiamo qui una delle radici del femminismo che ha visto l’Autrice protagonista attiva (tuttavia, è passata alla storia col cognome del marito).
Fugaci i momenti di euforia: viene descritta quella che parrebbe una improvvisa crisi maniforme.
L’ultima parte ha come protagonista Lily, una sorta di alter ego. E’ impegnata, nella sua attività di pittrice, nello sforzo di (ri)costruire e consolidare una realtà dotata di consistenza. Ciò riguarda non solo la pittura in senso stretto, poiché accade che una frase qualunque copra il vuoto dell’animo: se compongo una frase, forse arrivo alla verità delle cose, anche se forse questa è solo una ingannevole imitazione della “radiosità” di altri. Con “ movimenti precisi da vecchia zitella” riempie il quadro: nulla è più temibile di uno spazio vuoto. Disegnare con la fantasia è ben diverso dal farlo materialmente: solo questo atto concreto risponde all’esigenza di stabilizzare, di consentire la sopravvivenza come opera d’arte di un momento di amicizia e simpatia. Nel quadro c’è dunque lo “sforzo di essere qualcosa”. Nulla di sicuro, in questo cercare di imparare a memoria come funziona il mondo. Ma forse si tratta di mandare un potente messaggio: se si grida abbastanza forte, la signora Ramsay (ormai è morta) ritorna. Sopravvive comunque nel ricordo: per istinto si rivolgeva alla razza umana, e nel cuore di questa faceva il suo nido.
Si potrebbe considerare ciò come una sorta di manifesto dell’arteterapia. Ma anche inventarci storie è conoscere, ricordare, amare.
In guardia tuttavia dalla bellezza: maschera tutti i turbamenti, impropriamente forse. Lo sfoggio di benessere in un mondo di dolore suscita pensieri terribili. Torna la disperazione: basta col dolore, basta: lanciarsi nelle acque dell’annientamento (anticipa profeticamente la fine che ben conosciamo).
Torna la critica al maschio, tiranno un po’ stolido: secondo l’amico Tansley le donne non sanno dipingere né scrivere. A lei invece piace che gli uomini sudino e combattano; ma il sig. Ramsay continua a leggere, a quanto pare inutilmente. Tutto dipende dalla distanza; lei si sente lontana da lui. Il figlio James si allea con lei : “Grani di infelicità gli si posano sulla mente”, anche perché il padre è un tiranno, pur forse a suo modo innocente, come una pesante ruota che, certo senza colpa, schiacci un piede. James faticosamente matura: comprende in modo più articolato il padre, poiché nessuna cosa è “soltanto quella”.
Triste conclusione: “perimmo, ognuno da solo”, E’ plausibile che qui abbia attinto De Andrè: “questo ricordo non vi consoli: quando si muore si muore soli”.
mi aveva affascinato da adolescente.. più letto e dimenticato, solo l’emozione provata ricordo. Ora mi è venuta voglia di rileggerlo grazie Lino