La depressione, quando è tale e non si configura come un transitorio stato di tristezza, è spesso percepita come un’entità unica, uguale per tutti, da trattare con un approccio standardizzato.
In un contesto di presa in carico multidisciplinare, in cui la persona è al centro del percorso terapeutico, con la sua storia, i suoi vissuti e le sue peculiarità, diviene necessaria una comprensione globale dello stato di malessere che superi il sistema categoriale.
Le conoscenze neurobiologiche, psicodinamiche e sociologiche non sono ancora in grado di fornire certezze tali da incasellare un essere umano dentro una specifica categoria del DSM. Questo approccio risulta riduzionistico e non porta a reali benefici per le persone.
Per fortuna, i progressi nelle neuroscienze ci stanno facendo comprendere sempre meglio quanto la depressione sia un’entità soggettiva, cangiante, complessa e caratterizzata da numerosi sottotipi e biotipi.
Ogni biotipo coinvolge specifici circuiti cerebrali nei quali si generano squilibri biologici, con importanti implicazioni cliniche sulla vita di una persona.
Alla luce degli organicistici biotipi, sarebbe entusiasmante trovare riscontri biologici di quanto analizzato in oltre cento anni di studi psicodinamici, per comprendere se è la vita a plasmare la nostra psiche o se è la nostra biologia a materializzare il reale.
Non è ancora chiaro se venga prima l’uovo o la gallina; probabilmente si tratta di una combinazione di entrambi questi elementi, sui quali è possibile agire in modo personalizzato, avviando un percorso verso un approccio di precisione.
La sfida all’eterogeneità nella depressione
Come ogni clinico osserva nella propria attività, uno dei principali ostacoli al trattamento della depressione è proprio l’eterogeneità di segni e sintomi.
Un studio pubblicato nel 2024 su Nature Medicine, che porta il primo nome dell’italiano Leonardo Tozzi, MD, PhD, ha identificato sei biotipi distinti di depressione e ansia, basati su pattern specifici di attivazione e connettività cerebrale.
Il Prof. Tozzi, con il quale ho avuto l’opportunità di frequentare il primo anno di Medicina presso l’Università degli studi di Genova, ha diretto per oltre un anno il Computational Neuroscience & Neuroimaging Program dello Stanford Center for Precision Mental Health and Wellness e attualmente è Director of Research & Data di Ceribell con sede a Sunnyvale, California.
Il suo studio ha coinvolto un campione di 801 pazienti, aggregati da quattro precedenti ricerche, che sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale (fMRI) sia a riposo che durante l’esecuzione di compiti specifici progettati per attivare circuiti cerebrali rilevanti per la depressione e l’ansia.
La differenziazione in biotipi
La scoperta della differenziazione in biotipi, sebbene non fornisca ancora una diretta applicazione clinica, data la complessità delle tecniche utilizzate, apre la strada a scelte più specifiche riguardo al tipo di trattamento, che potrà essere farmacologico, psicoterapico o combinato.
Attualmente la scelta di un approccio terapeutico si basa molto sull’esperienza e la formazione del terapeuta, che spesso porta alla comprensione dei complessi problemi di un paziente, ma la strada verso la personalizzazione oggettiva del quadro clinico deve essere percorsa.
L’approccio tradizionale, basato su una diagnosi pressoché unica della depressione, si sta dimostrando insufficiente.
Circa un terzo dei pazienti non risponde ai trattamenti iniziali e molti attraversano lunghi periodi di prove ed errori per trovare una terapia efficace.
Al contrario, la stratificazione dei pazienti in base ai biotipi potrebbe consentire di predire con maggiore accuratezza quale trattamento sarà più efficace per ciascun individuo.
Secondo lo studio, un biotipo caratterizzato da iperconnettività dei circuiti di attenzione e salienza potrebbe rispondere meglio a terapie comportamentali, mentre un biotipo con iperattivazione del circuito di controllo cognitivo potrebbe trarre maggiori benefici da antidepressivi specifici come la venlafaxina.
Conclusioni
La depressione non è un’entità unica e, di conseguenza, non può essere trattata come tale.
La sua complessità richiede un approccio personalizzato che tenga conto delle specificità neurobiologiche di ciascun paziente. Le recenti scoperte sui biotipi della depressione aprono una nuova strada verso una psichiatria di precisione, promettendo trattamenti più efficaci e meno frustranti per i pazienti.
Questo cambiamento di paradigma rappresenta un passo cruciale verso una medicina veramente ad personam, capace di affrontare la complessità della psiche umana e delle sue disfunzioni.