Articolo apparso anche su La Repubblica il 7 maggio 2020
La drammatica pandemia che ha sconvolto il mondo porta a interrogarci brevemente sulle conseguenze psichiche che ha avuto e potrà avere su di noi e sui nostri pazienti ospiti delle comunità terapeutiche del Gruppo Redancia. Una prima considerazione riguarda la costrizione che ora accomuna pazienti e terapeuti: di necessità la nostra libertà ed il nostro arbitrio ci vengono negati.
Una sottile sensazione di angoscia pervade le nostre coscienze; non siamo più gli onnipotenti detentori del sapere “psi” , ma semplici persone in balia degli elementi avversi. Allora i nostri pazienti ci vengono in aiuto, proteggendoci da una depressione imminente. È il loro destino; quante volte lo hanno fatto con i loro genitori addirittura sacrificandosi.
Una seconda considerazione riguarda la fase di ripresa quando e se il virus sarà debellato. Allora penso dovremo fare i conti con gli sforzi che i nostri ospiti hanno fatto e prepararci a crisi e malesseri.
Nel frattempo staranno cambiato i sistemi e i valori di riferimento; come tutte le crisi potrà essere proficua se favorirà un ripensamento critico della nostra collocazione in un mondo che rifiuta di essere artificiale e vuol ritornare naturale.
È vero in tema di proiezione e negazione non abbiamo nulla da imparare dalle “persone affette da problematiche psi”. E questo, semmai, mi fa dubitare ulteriormente un tantino della salute mentale di certi nostri politicanti. Mi piacerebbe credere all’”Uomo della pioggia” quando alla fine del film con sorriso smagliante urlava: “il mondo è pazzo e per rimetterlo in sesto ci vuole uno squilibrato di prima classe”. Ma certuni non hanno nemmeno la dignità di certa follia. Ma tornando alla realtà posso solo immaginare quali effetti possa avere un operatore sanitario con spiccata vocazione proiettiva e con marcata tendenza alla negazione sul percorso di “recupero” di certi pazienti.
Riguardo ai “detentori del sapere psi”, spero abbiano elaborato degnamente il proprio delirio di onnipotenza ben prima dell’avvento dell’epidemia. Ma lo diamo per scontato seppure il desiderio di aiutare gli altri possa tante volte farci sconfinare nell’ “eccesso di zelo”, per così dire.
Mi piaceva l’idea dei “pazienti che ci vengono in aiuto, proteggendoci da una depressione imminente”. Un po’ come se fossero i pazienti “designati” (come si diceva una volta) ad “agire” le angosce della “famiglia curante”. In realtà, molti pazienti (non tutti) hanno reagito e stanno reagendo magnificamente a questo ritiro forzoso. A ulteriore testimonianza che i pazienti hanno tante volte più risorse di quelle che gli accordiamo tradizionalmente.
Che sia davvero la “socializzazione dell’angoscia” a rendere l’angoscia individuale meno spaventosa? È come se nei momenti di crisi i cosiddetti “normali” e i “folli” rivelassero allo stesso modo “una strutturale volontà di esserci come presenza”, cioè l’incrollabile bisogno di far ancora parte della storia umana stessa (nell’accezione di De Martino). E chissà che non sia proprio il senso della “Comunità” a fornire proprio gli strumenti per proteggersi (dall’angoscia) e svincolarsi (“riabilitarsi”) dalla crisi. In tal senso, i pazienti possono davvero insegnarci molto. E forse stanno lì a dirci che non è così disastrosa la situazione…“possiamo ancora esserci”, ma “saremo in un altro modo, a condizioni differenti e con caratteristiche diverse”. Dobbiamo soltanto abituarci all’idea di non poter più insistere con un certo tipo di “relazioni d’oggetto di tipo narcisistico”, per così dire.
Riguardo al “cambiamento dei sistemi e dei valori di riferimento” sono un tantino più pessimista. Davvero pensiamo che questo virus possa implementare nuove dinamiche politiche economiche e finanziarie, una nuova visione del mondo? Temo che questa crisi non sarà “crisi del sistema quale espressione della crisi radicale di vita dell’umanità” anche se mi ostino a pensarlo. E tuttavia bisogna crederci. Siamo condannati ad aver fede. Però bisogna “diventare il cambiamento che vogliamo”.
Ma esattamente di cosa stiamo parlando, poi? Di passione-incarnazione-resurrezione? Dell’idealizzazione di una primitiva età dell’oro? O più laicamente di una teoria normativa “morale”? O forse stiamo discettando semplicemente della solita critica delle brutture del capitalismo? Dico “solita” non per sminuirne la fondatezza, ma per sottolinearne l’inefficacia. E allora quale critica può avere un’incidenza culturalmente utile, cioè che possa avere delle ricadute concrete sulla quotidianità e sul rinnovamento delle persone sia come individui sia come gruppi? E da dove prenderà il via questa rivoluzione culturale? Dall’individuo? O dalla collettività? Domanda apparentemente retorica tanto è banale, forse. Ma a pensarci bene qui si confrontano da un lato l’idea bella e terribile che ogni uomo è libero di autodeterminarsi e assolutamente responsabile di se stesso. Dall’altro stiamo qui discutendo soprattutto di una epocale trasformazione nella coscienza popolare, un repentino mutamento dell’approccio collettivo alla realtà. Sarebbe bello confrontarsi ciascuno con i rispettivi strumenti su questi argomenti. Qualunque cosa sia auguriamoci almeno, che di tutto questo lavorio mentale non rimanga alla fine soltanto – un’asfissiante odore di morte -.
A proposito, una differenza tra sani e malati c’è però. Non ho ancora sentito un paziente che “si preoccupi dei soldi”. Non ho ancora sentito in gruppo o nei colloqui individuali l’ossessione per il risarcimento dei danni. Quando avverrà? A quanto ammonterà? Insomma, in queste ore, nonostante la fame di informazione che i pazienti esprimono attraverso le domande poste ai curanti o il pacato ascolto dei media, non prevale come il tema dell’anno la questione economica e finanziaria post-pandemia. Non è che non siano temi importanti. Si capisce È solo forse che alcune persone hanno il buon gusto di tacere di fronte ai tanti morti. Forse è cordoglio. Forse è pudore. Comunque sia è una roba che mi da speranza!