Essere tempestivi è fondamentale in quasi tutte le occasioni della vita.
Nel caso dell’epidemia da coronavirus ce ne siamo dovuti accorgere nostro malgrado. Ed ora si cercano i colpevoli o gli imprudenti e disattenti.
Fa parte del rituale del giorno dopo le catastrofi è più presente in paesi scarsamente civili dove prevale, anziché il senso di responsabilità, quello della colpa che poi viene gestita in genere per interessi particolari (di parte).
Il virus ha colto il paese impreparato, mentre lui viaggiava a 100 all’ora, noi eravamo costretti a viaggiare a 10.
Intempestivi nell’eseguire i tamponi che potevano individuare le persone oltre che infettate, infettanti, là dove tra l’essere infettati e manifestare i sintomi poteva passare un tempo dai tre ai dieci giorni.
Intempestivi nel processare i tamponi stessi: tempo medio tre giorni.
Intanto il virus viaggiava e seminava macerie.
Intempestivi nel prendere iniziative di isolamento sociale preventive là dove ovviamente non si poteva mappare il contagio crescente (esemplare è l’aperitivo in piazza a Milano con politici che negavano l’evidenza).
Oggi fanno notizia le case di riposo, o RSA, come comunemente denominate.
Ci si stupisce che in un ambito in cui la vicinanza fisica e la permeabilità sono la regola determinate dalla convivenza di decine e centinaia di persone, il virus abbia potuto svilupparsi.
Ritorniamo all’inizio e consideriamo che in queste situazioni il virus viene dall’esterno ovvero introdotto da ignari ospiti o operatori a loro volta entrati in contatto con persone contagiose e quindi di contagiati e loro stesso contagiosi.
Chiudere le porte da solo non è sufficiente come non lo è l’avere DPI efficienti ed efficaci; anche qui basta avere memoria e ci si rende conto dell’intempestività nel fornirli: ricordate i sacchetti della spazzatura al posto dei sovrascarpe, le cuffie da panettiere al posto delle protezioni normali, le mascherine fatte da soli e con scarsissima vocazione protettiva.
Lo ricordate voi soloni del sapere accademico?
Ora si parla di R tendente allo zero, ma all’inizio avevamo un indice di contagio pari a 4.
Immaginiamo ora un operatore di una RSA che ha avuto in casa due casi che sembravano influenza, ma che tardavano a guarire con la sola Tachipirina e che pur chiamando il medico e poi il 118 si sente dire che non faranno un tampone di verifica ai suoi congiunti.
Lui sta bene, non ha sintomi e va a lavorare: è infetto ed infettante e non lo sa.
Diligentemente si mette quei pochi dispositivi di protezione disponibili nelle prime fasi e inconsapevolmente diventa il caso 1 di quella struttura e ne infetta altri 4 che per manifestare i sintomi avranno un periodo di tre, sette giorni.
Quando i sintomi si manifestano si chiede il tampone; per farlo ci vogliono altri due giorni e per processarlo altri due; intanto il contagio prosegue la sua corsa veloce e da quattro arriviamo a trentadue pazienti infetti; quando l’esito dei primi tamponi arriva e si verifica la positività, è già tardi per prevenire e ci tocca curare separando ulteriormente, ricoverando in ospedale, mettendo a repentaglio altri operatori e pazienti che sono costretti in un luogo chiuso dove da tempo non entra più nessuno, ma dove il virus la fa da padrone.