Vaso di Pandora

Shiva sul lettino di Freud

La nostra psiche vista da Oriente
Lo Shiva del titolo me lo ha fatto tornare alla mente come coprotagonista di un arcaico mito.

Suo figlio Ganesh viene  incaricato dalla madre Parvati di sorvegliare affinchè nessuno la veda mentre fa il bagno. Egli pretende però di sbarrare il passo perfino al padre, Shiva, e questi lo decapita; ma poi, commosso dalle preghiere di Parvati, gli innesta la testa di un elefante in sostituzione della sua.
Ciò mi ha colpito perchè   tratta lo stesso tema dell’occidentale mito di Edipo: scontro fra padre e figlio per il possesso esclusivo della madre. La differenza evidente sta nell’esito dello scontro, che nel mito induista vede il padre prevalere facilmente sul figlio per poi  perdonarlo  offrendo una riparazione.
Questa tuttavia non riporta le cose allo stato precedente, ma è fonte di un momento evolutivo: Ganesh “cambia testa”, come prima o poi ogni figlio deve fare, e diviene addirittura il Dio della saggezza e della memoria (“memoria da elefante?”).
Dunque, anche nella visione induista l’acquisizione della maturità passa attraverso uno scontro con il padre, ma questi  sottomette il figlio imponendogli un cambiamento di testa, e certo di visione del mondo; diversamente da quanto accade a Edipo che, animato fin dall’inizio da uno spirito di ricerca attivamente curiosa e di spinta al cambiamento, rovescia rivoluzionariamente i rapporti di potere ma paga questa vittoria con un penoso e colpevole disancoramento, che forse ancora oggi viviamo.
E’ questo, credo, un filo rosso mai completamente interrotto nel mondo occidentale, anche se a lungo dissimulato, che va dal dubbio socratico e dalla scepsi fino al nascere della scienza, al concetto di democrazia e alle moderne ideologie rivoluzionarie.
Torniamo al mito indù: vi  si evidenzia una serie di tematiche destinate a riapparire, millenni dopo, nella ricerca psicanalitica: il concetto lacaniano di “nome del padre” come fondante il principio di realtà, di Bion sul rapporto fra frustrazione depressiva e l’apprendere dall’esperienza, della Klein sulla riparazione.
E l’esplicita carnalità del racconto  ci conduce all’importanza del desiderio nel pensiero indù: va ricordata la figura di Prajapati, generato da Brahma e a sua volta creatore – demiurgo che, spinto dal desiderio, si scalda con una ascesi e poi emette gli esseri: creazione vista quasi come una sorta di eiaculazione.
Nel suo articolo, Sudhir Kakar ricorda l’importanza nella cultura indù – indiana della connessione (val la pena notare che questa nelle Upanishad ha un significato assolutamente globale – connessione universale della realtà – e un nome: Apti).
Prosegue mostrando che questa concezione dominante si riflette nell’immagine di un corpo strettamente connesso all’insieme della natura, e non sostanzialmente diverso dalla mente; nonchè nella visione del rapporto fra individuo e collettività. Per Kakar, l’idea indiana del Sé non è quella di una individualità unica autoconclusa, ma di un qualcosa costituito da rapporti; e le idee fondamentali su famiglia, matrimonio, differenze di genere sono di origine culturale.
A dire il vero, non  pare che queste posizioni siano così estranee all’odierno pensiero occidentale (anche se forse questo ne è debitore in parte proprio al pensiero orientale). Molti anni fa Autori come Sullivan e Kardiner parlavano di analisi culturale, che  vede il soggetto come inserito un contesto socioculturale; Sullivan poneva l’accento sulla interazione fra individui, giungendo a negare il concetto psicologico di individuo e a sostenere che la personalità è definita da processi interpersonali.
Su un piano più generale, il concetto centrale di Dasein (esistenza, ma anche presenza, esser-ci) di Heidegger riconosce senso all’essere solo in quanto situato.
Ciò non toglie che nella visione induistica  la connessione regni in modo più ampio ed esplicito, anche fra cose che noi teniamo ben distinte, quasi con timore di un reciproco inquinamento. Lo si vede anche in esempi terra terra della quotidianità, che lascia connesse istanze e attività : colpisce la confidenza che i credenti  si prendono con immagini e simboli religiosi (ho visto stendere biancheria ad asciugare sui gradini di un tempio, ho visto macellare cerimonialmente animali da cortile poi tranquillamente cucinati e mangiati a casa).
Coerentemente, Sudhir Kakar conclude con l’invito  a farsi guidare “da una immagine della psiche in cui l’inconscio individuale dinamico e l’inconscio culturale sono strettamente collegati e l’uno arricchisce, vincola e modella l‘altro mentre evolvono contemporaneamente insieme nella vita”.
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Commenti su "Shiva sul lettino di Freud"

  1. Dove nasce il mito se non dalle passioni che pervadono il nostro essere, quindi mi pare umanamente comprensibile che esse appartengano a tutti; il contesto le declina secondo culture sensibilità e caratteristiche anche speciespecifiche.

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