Commento all’articolo del 10 ottobre 2016
Vale la pena di capire le motivazioni di questa mescolanza indiscriminata e inevitabilmente non terapeutica, le cui radici sono lontane. Naturalmente, capire non vuol dire giustificare.
Il concetto di follia non era estraneo al modo classico, e persino alla Grecia preclassica: basti ricordare la pazzia di Aiace e la finta pazzia di Ulisse. La risposta ad essa non era esente da violenza, tutt’altro: una terapia prescritta era l’elleboro, pianta notoriamente e pericolosamente velenosa, e non è azzardato pensare che, in dosi misurate, provocasse una perdita di forze con effetto calmante e apparentemente curativo (così diverso da certe farmacoterapie intensive?).
Ma una risposta istituzionale non prende forma che nel diciassettesimo secolo, e non si rivolge alla follia in senso stretto bensì alla più vasta area della devianza, che include il più ristretto ambito della follia nel senso che oggi vi attribuiamo. Ciò, per una serie di fattori, particolarmente evidenti in Francia che offre il modello più chiaro di questo cambiamento:
– sul piano politico, la fine del modello feudale col suo potere multicentrico che lasciava fra l’un centro e l’altro – il villaggio, il castello, il convento – ampi spazi non governati dove il folle poteva essere espulso e abbandonato; subentra gradualmente la monarchia assoluta che non ammette disordini nello spazio che domina, coincidente con l’intera nazione;
– sul piano urbanistico, acquistano predominio i centri urbani, dove il deviante non può più essere lasciato a sé stesso, fonte di fastidio e/o di compassione;
– sul piano sociologico, la famiglia allargata e quasi tribale del mondo contadino tende, specialmente nelle plebi urbane, a essere sostituita da nuclei più piccoli e meno capaci di riassorbire i comportamenti di un membro dal contegno disturbante;
Sul piano del pensiero filosofico e scientifico, le lezioni di Cartesio, di Bacone, di Galileo levano spazio all’irrazionale, all’irregolare, a ciò che sfugge alla verifica metodologica.
Diviene dunque inevitabile il ricorso a istituzioni che racchiudono e isolano tutto ciò che turba l’ordine sociale così ristrutturatosi: al di là delle intenzioni, divengono vere corti dei miracoli.
Un esempio di casa nostra, la popolazione dell’Albergo dei Poveri genovese che non era diversa da quella descritta nell’articolo: “poveri vecchi e donne vecchie … inhabili … senza aver chi gli provveda … i figlioli spersi, orfani e abbandonati … le povere figlie abbandonate e poscia fatte grandi maritarle … le adultere, malmaritate e penitenti … le donne gravide che non hanno luogo e comodità per il parto … huomini bestiali, spietati, crudeli, prodighi, giocatori, scandalosi e di disturbo ai buoni … i mendichi poverelli storpii disturbatori … tignosi, leprosi, tignosi, paralitici, scemi, pazzerelli, matti …” .
La società del tempo impone dunque una risposta necessariamente indifferenziata e grossolana a tutto ciò che ostacola il definirsi di un ordine sociale. E’ con un movimento lento e faticoso che riesce nei secoli a definire prassi differenziate quali risposte a condizioni diverse: una di queste è la condizione folle. Un momento decisivo è la fine dell’assolutismo, che rende improponibile il proseguire nella pratica dell’internamento indifferenziato e non giustificato da una precisa infrazione di rilievo penale. Non è un caso dunque che proprio in coincidenza con la rivoluzione francese e la distruzione della Bastiglia nasca la psichiatria nel senso che le attribuiamo. Il potere politico ormai può legittimamente, e senza venir meno alla’ideologia che lo ispira, internare chicchessia senza le garanzie del procedimento penale, solo a patto di fruire di un avallo scientifico (almeno nelle intenzioni) che dichiari la persona portatrice di un problema medico.
Ma questo cambiamento teorico non porta con sé un cambiamento pratico, se non in tempi molto lunghi: ancora nella mia esperienza ricordo diverse situazioni in cui non si poteva parlare di vera follia ma piuttosto di devianza e di bisogni non altrimenti “soddisfatti”. E’ iniziata allora una scrematura che ha portato alla dimissione di numerosi degenti, in misura tuttavia limitata. La difficoltà non consisteva quasi mai nel timore di agiti pericolosi verso terzi: caso mai potevamo parlare di pericolosità per se stessi, ma solo nel senso di una radicale inettitudine a provvedere alle proprie elementari necessità. Essa nasceva non solo da basi psicopatologiche ma anche alla assenza di risorse e di supporto sociale. Infatti la struttura manicomiale era nata in risposta a esigenze non soltanto di sicurezza, ma anche di una assistenza sociale sui generis, offerta in forma estremamente rozza e indifferenziata, in mancanza di altri supporti più articolati e adeguati. Accanto allo svilupparsi di correnti di pensiero –psicanalisi, fenomenologia e, sì, anche marxismo – e al raffinamento tecnico dell’intervento psichiatrico, lo sviluppo del welfare è stata dunque la terza condizione per il superamento di situazioni come quella descritta nell’articolo.
Si deve sperare che la crisi dello stato sociale e il prevalere di ideologie che lasciano poco spazio alla solidarietà non finiscano col compromettere quanto di buono abbiamo realizzato nel nostro campo. D’altronde, esistono già nuove istituzioni: i centri di accoglienza per migranti.