Commento all’articolo di Filippo Ceccarelli apparso su “La Repubblica” il 14 marzo 2019
L’articolo cita l’omonimo libro di Tiffany Watt Schmidt.
Schadenfraude, gioia per le disgrazie altrui, parente stretta dell’invidia e forse espressione di ciò che Hobbes riteneva fondamentale, lo stato di guerra permanente fra gli uomini. Per Hobbes, la guerra non consiste solo in una serie di operazioni militari, bensì in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere. Ciò ricorda il fatidico “guerra è sempre”, che Primo Levi mette in bocca a un suo personaggio, ma crediamo non condividendolo.
Restringendo il campo sull’invidia, non si può non ricordare Melania Klein. Nel suo fondamentale “invidia e gratitudine” cita – quasi come remoto anticipatore del suo pensiero – Geoffrey Chaucer, che riteneva l’invidia il peggiore dei peccati, capace di attaccare ogni cosa buona. Quanto a Freud, aveva avvicinato il tema da diversa angolatura nel suo lavoro sul motto di spirito, soffermandosi su quella varietà che ne è il motto di spirito ostile: lo ha considerato il modo per aggirare la censura che vieta le manifestazioni di aperta ostilità, almeno di quelle eticamente non motivate. Ciò, grazie al perfezionamento di una tecnica di invettive in qualche modo rese ammissibili perché non proprio serie, non proprio vere: si schiude così, scriveva, una fonte di piacere che conferisce al motto ostile la sua tipica gioiosità liberatoria. Si traveste l’attacco con l’arguzia per evitare critiche e contrattacchi: “stavo scherzando!”. L’operazione è da condividere con un terzo. La partecipazione e complicità di questo – persona singola o gruppo – è essenziale: col motto ostile chiamo il gruppo a testimone dell’errore della persona derisa.
Anche Bergson, citato nell’articolo, nel suo “Le rire” afferma che non potremmo apprezzare il comico se ci sentissimo isolati; sembra che il riso abbia bisogno di un’eco; è sempre il riso di un gruppo.
Ma il risultato non è innocuo, l’aggressività si manifesta. Ancora Bergson afferma che il riso non deve essere giusto, né buono: esprime un fondo di cattiveria che è in ciascuno di noi. Il comico esige qualcosa che assomigli a una “anestesia momentanea del cuore”, a una incapacità di comprendere e sentire la sofferenza inflitta all’altro. Può accadere, prosegue, che in certe forme del comico ci raffiguriamo persone bastonate che diventano manichini: per ridere abbiamo bisogno di disumanizzarli (ci viene in mente quanto accade nel teatro dei burattini). E prosegue: l’errore imputato e sanzionato tramite la comicità, può nascere da “distrazione”: dall’aderire, come nel caso di Don Chisciotte, a parametri diversi da quelli divenuti consensuali e pressochè obbligatori nella collettività. Il comico può prendere la forma della caricatura, fondata su una particolare operazione: per Bergson, per quanto regolare sia una fisionomia, potremo sempre scorgervi l’indicazione di una piega sul punto di annunciarsi.
Egli apre un altro importante capitolo ricordando che chi è oggetto del riso può essere spinto a correggersi: quindi il riso ha una funzione normativa, persegue un perfezionamento sociale.
Questo perfezionamento, in un’ottica conservatrice, può consistere in un richiamo all’obbedienza conformistica alle norme. Ma credo possa accadere, al contrario, che l’invidia rivolta alle figure dominanti favorisca la critica del sapere-potere costituito, e alla fine perfino apra spazi a una nuova creatività. E’ distruggendo il vecchio che si fa spazio al nuovo. Lo esprimeva bene la mitologia indù con la figura di Shiva il Distruttore, unito complementarmente con Brahma Creatore e Visnù Conservatore in quella Trimurti che ci ricorda la nostra Trinità.
Nel comico ci può esser qualcosa che attenta alla vita sociale, in quanto essa vi risponde con una reazione difensiva. Di fatto, esso può assumere una funzione politica, perfino rivoluzionaria. Di qui la diffidenza che il potere costituito nutre per il riso nella sua connotazione aggressiva. Nel “Nome della rosa” Umberto Eco mette in bocca all’arcireazionario Jorge le parole: “Il riso distoglie per alcuni istanti il villano dalla paura. Ma la legge si impone attraverso la paura. Qui (si riferisce al libro di Aristotele che vuol distruggere) si ribalta la funzione del riso, lo si eleva ad arte….” Non è chiaro se Aristotele abbia davvero scritto un intero libro sul ridere, ma comunque nella Poetica ha scritto: “Il ridicolo è un errore o una bruttura che non reca né sofferenza né danno, proprio come la maschera comica è qualcosa di brutto e stravolto, ma senza sofferenza”.
Per Autori come Erasmo e Nietzsche è importante la funzione liberatoria del riso, nella sua ostilità dissacrante.
Il primo in quella sistematica dissacrazione che è l’Elogio della pazzia esalta il Dio Bacco contrapponendolo a seriosi detentori del potere come Giove: “finalmente è così alieno dall’ambire al nome di savio, che gode d’esser venerato coi dileggiamenti e gli scherzi”. E prosegue il discorso: “tra gli stessi teologi si trovano uomini di dottrina solida e giudiziosa, ai quali fanno nausea queste frivole e impertinenti arguzie. Per i teologi, non è permesso che a loro il parlare scorrettamente, e tutt’al più lo concedono anche al volgo”. Forse è proprio questo lo spunto ripreso da Eco.
Quanto a Nietzsche, crede che il riso sia “un forte antidoto alla pretesa di conoscere il fine dell’esistenza e di disciplinare la collettività umana in base ad esso” (basterebbe questo a smentire le accuse di essere un profeta del nazismo). Prosegue: “bisognerebbe poter ridere di questa pretesa, e forse un giorno il riso si alleerà alla saggezza, e in questo senso si potrà parlare di “gaia scienza”. Si richiama ad Eschilo che mette in bocca a Prometeo – incatenato per volontà di Zeus supremo legislatore – l’invocazione al “riso interminabile del mare”, che nulla può turbare. Importante dunque la funzione liberatoria del riso, nella sua ostilità dissacrante. Un paradosso forse vero: anche l’ostilità può essere infine costruttiva.