Vaso di Pandora

Salute: lo psichiatra, con terrore Is è sindrome da società sotto assedio

Commento alla notizia del 30 marzo 2015

Mencacci, ‘deimosfobia’ e crisi paralizzano 4 italiani su 10

Una “società sotto assedio”, paralizzata dal format del terrore coniato dall’Is e diventato virale sui nuovi media dell’era 2.0. Gli esperti lanciano l’allarme in occasione del 23esimo Congresso dell’Epa, l’Associazione europea di psichiatria, che si chiude domani a Vienna: “Crescono le paure e diminuiscono i sogni”, sintetizza Claudio Mencacci, past president della Società italiana di psichiatria (Sip).

“Emotività estrema, angoscia, panico, paura, smarrimento, la sensazione di fragilità e di essere sotto attacco su due fronti. Da un lato la crisi economica, il terrorismo dall’altro”.
Colpisce “circa 4 italiani su 10”, stima il medico descrivendo “un blocco psicologico che sta assumendo i contorni della sindrome: la gente inizia a disertare i maxi-eventi collettivi, a evitare i mezzi pubblici, gli spostamenti e i viaggi. Sta addirittura aumentando l’utilizzo dei giubbotti
antiproiettile da parte della gente comune.
C’è il bisogno diffuso di sentirsi in qualche modo fisicamente protetti”.
Il direttore del Dipartimento di neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano ricorre alla mitologia greca per definire il nuovo fenomeno: “E’ la ‘deimosfobia’ e nasce da Deimos, dio del terrore figlio di Ares e Afrodite, che con il fratello Phobos accompagnava il padre in battaglia.
Paura e terrore insieme. La paura del terrore, appunto”. Da Paese a Paese cambiano i numeri e i motivi, precisa Mencacci. “Le indagini europee ci dicono che la paura raggiunge percentuali massime in Francia (90%) e Gb (70%). Il dato è molto alto anche in Spagna e in altre nazioni che hanno sperimentato attacchi diretti. Per l’Italia un conto preciso non è stato
fatto, ma possiamo stimare un 40% di persone vittime di una sensazione di forte minaccia sociale. All’incertezza economica e alla disoccupazione giovanile si aggiunge l’orrore” delle teste decapitate e degli attentati.

Questi dati ripropongono il problema dei confini della psichiatria, disciplina medica sui generis e strettamente intrecciata con il sociale. Di fronte all’angoscia che nasce da reali e diffusi motivi di allarme, quanto può aiutare l’approccio psichiatrico? Quanto esso è valido a livello di rilevamento dei vissuti prevalenti, di una definizione di essi come psicopatologici o meno, di aiuto alla loro comprensione, di formulazione di un costrutto teorico nei quali inquadrarli, e infine a livello di possibili interventi individuali o di gruppo o addirittura sulla collettività?
Si può comunque ritenere che l’attuale momento storico può aprire un nuovo capitolo della psichiatria sociale, riproponendo il problema di quei rapporti fra il sociale e la soggettività che costituiscono un’area di interesse particolare per la gruppoanalisi.
Viviamo in effetti di un momento di transizione, delicato come ogni cambiamento. Nei secoli scorsi l’Europa ha vissuto la sua grande stagione: conseguita una netta superiorità tecnologica e militare, ha di fatto sottomesso il mondo intero, realizzando in parte un dominio diretto come in India, in parte una schiacciante egemonia come nell’Asia orientale, in parte addirittura un’assimilazion e e sostituzione di popolazioni come nei continenti americano e australiano. Con questi ultimi ha costituito quel forte insieme che denominiamo Occidente, unito da comuni valori, costumi, linguaggi.
Le cose stanno cambiando, temo irreversibilmen te: quello che chiamavamo terzo mondo recupera terreno. L’Asia orientale ci impone una concorrenza commerciale difficilmente sostenibile; i popoli subsahariani tollerano sempre meno l’enorme differenza fra il loro tenore di vita e il nostro, e ci impongono un movimento migratorio ben poco arginabile; il mondo islamico, nostro rivale da tanti secoli con alterno prevalere suo o nostro, vuole una rivincita perseguita in parte con la forza dei petrodollari – l’Etihad compra l’Alitalia – e in parte con attacchi terroristici al nostro mondo. La minaccia di occupare Roma è, allo stato delle cose, una sbruffonata; ma ci spaventa perché non abbiamo più voglia di rischiare la vita per difendere i nostri privilegi. Tutto, dunque si tiene: disoccupazione, immigrazione mal controllata, attacchi terroristici non solo concorrono a spaventarci ma hanno una comune origine: il nostro relativo declino.
Il timore di ciascuno diviene timore di tutti, e si riverbera nuovamente sul singolo anche per l’invasività dei messaggi dei mass media. Val la pena di ricordare Bateson: ogni essere partecipa a una rete di relazioni significative in equilibrio fra stabilità e cambiamento, e interagisce in realtà sempre nuove che richiedono nuove definizioni.
Torno alla domanda sulla nostra possibile funzione professionale. Al di là dei possibili interventi terapeutici individuali, potrebbe forse consistere in un aiuto a “pensare” il cambiamento anziché esserne travolti; a scremare il timore realistico dal livello immaginario che vi si sovrappone; a contribuire alla comprensione di ciò che accade e al modo di fronteggiarlo.
La nostra difficoltà può esser meglio compresa rileggendo Agostino, che scriveva vivendo in prima persona la caduta dell’Impero Romano, contesto certodiverso dall’attuale ma non poi del tutto: “Qui, lo vedi, ogni cosa dilegua per far posto ad altre e costituire l’Universo inferiore nella sua interezza. . Fissa dunque in lui la tua dimora… Rifioriranno le tue putredini, tutte le tue debolezze saranno guarite: anziché travolgerti nel loro abisso, rimarranno stabili e durevoli accanto a te”. Questo brano delle Confessioni anticipa le tesi della “Città di Dio”: questa è eterna e incorruttibile quanto quella terrena è caduca. 
Secondo R. Menarini (sta in: “In nome del gruppo” a cura di F. De Maria, Franco Angeli, 1994) S. Agostino “introduce la nozione di soggetto quale struttura pensante l’immanenza collettiva degli eventi senza farsi corrompere dalla medesima… La città è stata devastata a livello delle sue identificazioni divine originarie ma appunto perché l’identità interiore ha potuto sostenere l’ex-venio (allarmante imprevisto esterno) senza disarticolarsi nella de-personalizza zione, la polis si apre a una prospettiva che trascende gli eventi”. 
Agostino parlava nel contesto delle invasioni barbariche vissute in prima persona; per fortuna non siamo a quei punti, ma la sua eredità è ancora stimolo alla riflessione.
Egli trovava il suo sicuro ancoraggio nella religione cristiana, ma oggi a troppi di noi essa appare, per mille motivi, logorata. Dove cercare dunque un mito fondante condiviso di cui la nostra cultura, come ogni altra, non può fare a meno? Gli autodefiniti “atei devoti” suggerivano anni fa di “credere anche se non si crede”, o di “agire come se si credesse”; ma è un suggerimento sensato? Ci può bastare allora la fiducia nei valori fondamentali in cui crediamo, la tolleranza laica e il primato della ragione? O non si può comunque fare a meno della dimensione del sacro?

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