Ancora una volta, lavorando insieme a Gianni Giusto e agli operatori del Gruppo Redancia, da lui coordinato, mi sono trovato a vivere un’esperienza da cui si possono dedurre considerazioni utili per il futuro.
All’inizio del 2021, su proposta di Gianni, ho iniziato a svolgere una supervisione su una delle attività delle Comunità Terapeutiche del Gruppo. In particolare, lo scopo era di dare una mano agli operatori che avevano ripreso a fare il Gruppo Multifamiliare (GPMF) da remoto, dopo averlo dovuto sospendere dal vivo.
Ben presto mi sono reso conto che il lavoro “classico” della supervisione, svolto sul controtransfert degli operatori, per quanto operato sul più ampio coinvolgimento possibile del maggior numero di operatori, non era in grado di fornire quel supporto a cui mirava il mio contributo.
Mi resi conto che non potevo ottenere i risultati sperati se, prima di effettuare la supervisione, non avessi partecipato al GPMF stesso, alla stregua degli altri operatori che vi avevano partecipato.
Nacque, così, l’idea di partecipare al gruppo, anche se non conoscevo pazienti, familiari e operatori e di vivere, con gli operatori stessi, un Ateneo, cioè una discussione post-gruppo, subito dopo la fine del gruppo stesso.
Si decise, inoltre, di riportare nel gruppo grande, costituito da tutti gli operatori di Redancia interessati al problema e che si è riunito regolarmente, ogni quindici giorni nel 2021, i termini di quelle discussioni (Atenei), sollecitando tutti gli altri operatori, provenienti da parecchie altre strutture, a fare domande, porre dubbi, esprimere parerei, prendendo spunto dal materiale presentato in maniera corale dagli operatori di quella comunità e dal sottosritto.
A mio parere, si è trattato di un grande sforzo, che ha consentito agli operatori coinvolti di vivere un’esperienza affascinante.
Gli operatori delle Comunità Terapeutiche coinvolte direttamente nella gestione dei gruppi hanno potuto vivere i gruppi insieme a qualcuno con più esperienza, che li ha aiutati a vedere quello che vi accadeva e a stimolare che accadessero cose che non era così scontato che sarebbero accadute, senza gli interventi loro e miei.
Io ho avuto la possibilità di sperimentare me stesso in situazioni in cui non conoscevo prima: pazienti e familiari, sempre e la maggior parte delle volte, nemmeno gli operatori. Esperienza che mi ero sentito di fare, dopo molti anni di lavoro con i gruppi, in rapporto al grado di maturità raggiunto come conduttore.
Credo che, però, questo modo di lavorare porti a prendere in esame una questione, sottesa all’esperienza stessa, ma non di così semplice individuazione.
Io penso che, lavorando in questo modo, possa risultare chiaro, sia agli operatori delle Comunità Terapeutiche in cui si svolgono i gruppi, sia al conduttore, la progressiva acquisizione da parte del gruppo stesso, della capacità di svolgere la funzione terapeutica.
Il gruppo, in quanto tale, seguendo le regole che vengono proposte ai suoi componenti e facendole proprie, finisce per attivare le capacità terapeutiche autonome di cui dispone nella misura in cui i conduttori riescono a lasciare progressivamente che ciò su manifesti., trasformandosi da conduttori in coordinatori e, infine, in membri del gruppo stesso.
Questa considerazione propone di rivolgere attenzione ad una domanda basilare: chi svolge la cura? La risposta scontata sarebbe che la svolgono gli operatori e, conseguentemente, la struttura nel suo complesso.
E’ un po’ come se questo non fosse più così scontato perché è un po’ come se si dicesse che la cura la esercita il gruppo e non o, per lo meno, non soltanto l’operatore formato a tale scopo.
In conseguenza di ciò, l’organizzazione sanitaria, pubblica o privata dovrebbe aprire una riflessione molto approfondita sulle caratteristiche della disciplina che si occupa dei disturbi psichici, nonché degli operatori che se ne occupano e, in particolare, del loro ruolo.
Se fosse confermato che questa ipotesi abbia una sua validità, dovremmo essere in grado di ripensare dalle fondamenta la natura dei disturbi psichici e il modo di affrontarli, non perché tutte le misure messe in atto fino ad ora non vadano bene, ma perché andrebbero ricollocate all’interno di una prospettiva che pone come elemento terapeutico irrinunciabile il possibile venirsi a costituire di un “agente terapeutico” costituito, appunto, dal gruppo, cioè dall’insieme di attori, pazienti, familiari e operatori di cui si compone un GPMF.
Conseguentemente, gli operatori non potrebbero non rimettere in discussione il proprio ruolo, non per negarlo né, tanto meno, per non riconoscerne la specificità, quanto per aggiungere un tassello fino ad oggi non preso in considerazione per lo sviluppo della propria professionalità: la capacità di accettare la progressiva crescita di un’entità, costituita da pazienti, familiari e operatori che, nel corso del tempo, sia in grado di acquisire la competenza, prima ad auto-eco-organizzarsi, come diceva Jorge Garcia Badaracco e, successivamente, ad auto-curarsi.
Mi auguro che queste riflessioni contribuiscano ad aprire molte discussioni, Buon Anno!
Grazie Andrea per le tue riflessioni mi coinvolge particolarmente come sottolinei la capacità di accettare la crescita di un’entità (il gruppo) che sia in grado di acquisire competenza perché mi richiama all’esperienza di ogni psicoterapia ,forse ogni terapia, efficace cioè il recupero di capacità umane generative ,nello specifico la Comunità . Mi aiuta a ripensare nel tempo all’esperienza clinica vissuta come progressiva libertà di rendersi conto della straordinaria potenza delle relazioni !