Katia così ha scritto :
“Io Katia voglio parlare della mia vita dalla nascita ad adesso che ho 14 anni.
Io sono nata in Russia il 28-7-1995. In Russia ho una cugina di 15 anni che vive con la sua mamma e una sorella di 18 anni che vive con sua nonna. Io vivevo con mia mamma e mio papà che è morto quando io avevo 2 anni. Mia mamma beveva e io stavo a casa con mia cugina; ci faceva da mangiare la zia che si chiama Irina. Lei per me era come una mamma, dai due fino ai sei anni ho vissuto quasi sempre con lei, lei mi accudiva e mi faceva tutto.
Dopo la morte di mio papà mia mamma stava con un altro che la picchiava; quando la picchiava mi dava fastidio e io cercavo di difenderla, così lui picchiava anche me. Poi un giorno lui mi ha preso per le gambe e mi ha buttato contro un letto di metallo, così ho picchiato un occhio. Così sono andata in ospedale, dove hanno scoperto che non avevo genitori. Quando sono uscita dall’ ospedale mi hanno portato in un asilo orfanotrofio. Lì stavo bene, ma non ricordavo più niente, non ricordavo se avevo genitori, sorelle, cugine. Quando ho compiuto sei anni mi hanno portato in un orfanotrofio scuola collegio, lì ho trovato delle amiche e degli amici. Dopo qualche mese è arrivata mia cugina Olga, io non l’ho riconosciuta, lei mi raccontava qualcosa e poi ho capito che avevo una cugina, e sono stata felice. Mi sono ricordata un po’ tante cose di prima.
Un anno dopo la mia professoressa preferita mi ha detto che prenderò un aereo per andare in Italia. Io l’ho detto subito a mia cugina che non mi credeva e che mi ha detto che mi stavano prendendo in giro; io ci credevo perché mi fidavo della mia maestra. In estate sono andata a prendere l’aereo e sono arrivata in Italia a Genova. Lì ho trovato delle persone che mi hanno accolto in casa loro e da quel momento ho capito che quelli sono i miei nuovi genitori. Per qualche anno andavo a fare le vacanze estive e di natale da loro e festeggiavo lì il mio compleanno. Almeno festeggiavo con la mia “famiglia”. In Russia lo festeggiavo da sola, mi davano 100 rubli e io mi compravo qualcosa. Mamma e papà mi vogliono bene; anche io ne voglio a loro. Dopo i miei genitori c’è anche il mio gatto, che si chiama Minu, e sono molto felice di averlo, anche se preferivo un cane. Così per un po’ di anni ho continuato a venire a Genova, e mi piaceva tanto. Poi sono arrivata per sempre in Italia e ho iniziato ad andare a scuola. Lì ho trovato una vera amica che si chiama Stefania. Mi sono affezionata a lei, e lei a me; facevamo tutte le cose insieme e siamo diventate a poco a poco le migliori amiche. Sono stata felice perché ho capito che oltre ai miei genitori c’era qualcun altro che mi voleva bene. Dopo qualche mese ho iniziato la prima media, con Stefania, nella stessa scuola così non la perdevo. Ma l’ho persa lo stesso: le cose tra me e lei sono cambiate, e ogni anno che passa la perdo sempre di più, però lei rimane sempre la mia migliore amica, anche se io non sono più così per lei. Adesso ho conosciuto un ragazzo, e sono molto contenta e felice perché con lui sto bene e lui fa parte di me. Spero che lui diventi veramente speciale e che non mi deluda come la Stefania.
La vita di prima e la vita che sto vivendo adesso sono completamente diverse……”
Questa è Katia, è giunta tre anni fa in consultazione insieme alla sua famiglia in quanto presentava delle difficoltà nel recarsi a scuola….Certo, la sua vita di tutti i giorni si era presentata estremamente diversa nei due periodi di vita. Lo sforzo di assimilare nuovi contenuti, regole di vita con l’esperienza passata, risultava per Katia molto faticoso ed estenuante. Dall’apprendere, a scrivere con un altro alfabeto, imparare una lingua nuova, tutto era stato forse troppo impegnativo. Dopo le prime vittorie scolastiche alle elementari, è iniziata, alle scuole medie, una serie di grosse difficoltà; inoltre la ragazza non sopportava mostrare le sue debolezze, non sapeva e non voleva chiedere aiuto, per non apparire inadeguata. Fu così che ci furono sempre più attacchi aggressivi (alla scuola, alle cose e alle persone) , nascondendo così le sue piccole o grandi difficoltà.
Preferiva apparire “cattiva” piuttosto che debole. E’ stato necessario intervenire sostenendo Katia e i genitori, affinché capissero le difficoltà contingenti della figlia ,straniera adottata adolescente.
Questo lavoro nasce dal bisogno di fissare sulla carta tutte le voci, le sofferenze, le speranze, le delusioni, le vittorie che mi sono state comunicate in questi lunghi anni di ascolto dei bambini, dei ragazzi e dei loro genitori adottivi. Sono una pedagogista ; svolgo la mia attività presso gli sportelli di ascolto di scuole private e di stato, medie e superiori , e presso un Consultorio.
E una riflessione sulle adozioni di bambini provenienti dalla Russia, giacchè la mia esperienza ha evidenziato una realtà di provenienza comune.
Infatti, provengono tutti da situazioni di abbandono e trascuratezza, e sono tutti istituzionalizzati.
Sono in gran parte bimbi adottati in età scolare che al contrario dei piccolissimi, hanno memorie consce distruttive e disastrate. Il rischio dell’adozione è alto per questi bambini frequentemente difficili, anche se rimane la loro migliore chance.
Allora, cosa si intende per “resilienza”? E che valore essa assume nel caso del bambino adottato? Per resilienza si intende la capacità di un individuo di riuscire a vivere e svilupparsi positivamente, nonostante lo stress o eventi drammatici che potrebbero comportare il rischio di un esito negativo.
Il concetto di resilienza (resiliency) è nato e si è sviluppato negli Stati Uniti, e racchiude le idee di elasticità, vitalità, energia e buonumore. Essa quindi non è una qualità dell’individuo, ma un divenire, che inserisce lo sviluppo della persona in un contesto. Sono dunque l’evoluzione e la storicizzazione della persona ad essere resilienti, più che il soggetto in sé.
La resilienza, nel caso del bimbo adottato, è un potente fattore di comprensione dei meccanismi mentali che possono aiutare i bambini non solo a sopravvivere, ma anche a “rinascere” e imparare a vivere, anche nelle condizioni più avverse. Rappresenta il cammino da percorrere: l’esistenza è sì costellata di prove, ma la resilienza e l’elaborazione dei conflitti consentono, nonostante tutto, di continuare il proprio percorso.
La fine di una violenza, di qualsiasi forma si tratti, pone colui che l’ha subita di fronte ad una serie di interrogativi, ai quali deve esser data una risposta: ”perché, che senso ha quanto mi è accaduto, qual è il posto che tutto ciò occupa nella mia vita…?”. Allora a questo punto : come individuare e usufruire la strada e le risorse residue nel bambino adottato? Il trauma, il danno subito, rappresentano una sfida che mobilita le proprie risorse interne, oltre a quelle socioculturali dell’ambiente circostante. I genitori adottivi non possono esimersi dall’accettare tale sfida, perché la vittoria rappresenta il raggiungimento di un nuovo equilibrio, di un nuovo benessere.
Il genitore, quindi, come tutor del minore, come colui che riorganizza la sua vita interna ed esterna. I bambini, sono oltretutto avvantaggiati nell’avvalersi di strategie di resilienza, perché sono in grado di mettere in atto cambiamenti molto più profondi degli adulti che, spesso, sono irrigiditi dalle loro esperienze e concezioni del mondo.
Come funziona tutto ciò ? Sono le risorse interne acquisite fino al momento del trauma che permettono di reagire ad esso. In modo particolare risultano determinanti il possesso di un attaccamento sicuro ad una figura di riferimento, non necessariamente una madre, ma anche una persona di riferimento fissa nei primi tre anni di vita.
Il RAD: Reactive Attachment Disorder. “Disturbo dell’ attaccamento” è spesso presente in un modo più o meno importante nei bimbi adottati in Russia essenzialmente per due motivi.
1° In istituto si ha di rado la possibilità di avere una figura di riferimento fissa
2° i bimbi russi adottabili, sono spesso stati molto trascurati prima e dopo l’abbandono. Nati da genitori spesso alcolisti, affidati poi a spese dello Stato a famiglie spesso inadeguate e abusanti, e poi inseriti in orfanotrofi.
Le conseguenze del “RAD“ possono essere drammatiche nell’età adulta : incapacità di creare relazioni con gli altri, assenza di coscienza, rabbia costante repressa. Però il disturbo dell’attaccamento può in parte risolversi quando una figura sola subentra nella vita del bambino trascurato.
Nel caso dell’adozione non si tratta solo della mamma, ma della coppia genitoriale, di cui il bambino deve imparare a fidarsi e riuscire ad identificare come “base sicura” per la propria crescita in un ambiente accogliente. In questo caso essere genitori significa molto di più di un semplice “amare” o “esserci”.
L’adozione di questi bambini gravemente carenziati, è l’occasione di trovare, con figure genitoriali sostitutive, il proprio “filo della vita” attraverso l’amore; amore inteso, in questa sede, come la capacità di accogliere e contenere in senso winnicottiano il figlio, ossia la capacità di dare e creare nell’ambito della coppia quello spazio psicoaffettivo in cui possa avere origine e realizzarsi la costruzione del nuovo sé.
La capacità riparativa/contenitiva è il compito difficile del genitore adottivo: saper proteggere il nuovo figlio dai suoi vissuti dolorosi (separazioni, perdite, svalutazione di sé) e trovare in sé la capacità di saper proteggere, allo stesso tempo, i propri vissuti penosi (sterilità, fallimento, lutto e svalutazione di sé).
I ragazzi adottati hanno dentro di sé due coppie di genitori, e talvolta hanno vissuto più della metà della loro vita nella realtà di origine, di conseguenza per loro qual è più reale, il tipo di relazioni del passato, o quella che stanno vivendo ora? In più, i bimbi russi di cui sto parlando, hanno trascorso la maggior parte della loro prima infanzia in un lettino coperto da una rete, con un biberon posato lì accanto, con cui dovevano alimentarsi da soli. Tutto questo senza una presenza adulta che segni il momento della poppata da quello del riposo.
Se di solito le esperienze pre verbali di un bambino sono tenute nella mente dei genitori, dove sono per questi bambini? Essi hanno un vuoto che è rappresentato dall’assenza di questo holding interno. La maggior parte di loro corre il pericolo di rimanere aggrappata al loro triste passato, alimentando ricordi confusi e tragici.
Per tanti di loro, spostarsi in un posto migliore è stato tutt’altro che semplice. Possono arrivare nell’attuale famiglia mostrando difficoltà pervasive dello sviluppo e di comportamento; sicuramente alcune adozioni possono fallire.
Come già evidenziato, questi bimbi istituzionalizzati hanno subito un’interruzione del loro ciclo di attaccamento. Non è semplice aiutare un bambino che è in parte intrappolato nel mondo di una genitorialità caotica e abusiva, bisogna che i genitori adottivi lo “richiamino” a vivere nel qui e ora con loro. Bisogna aiutarlo a pensare a quello che gli è accaduto nel passato, e ai suoi ricordi di ciò che ha vissuto.
Si è potuto considerare come fondamentale la disponibilità dei genitori ad elaborare e raccontare al figlio la storia della sua nascita come figlio adottivo, strettamente collegata a quella della nascita biologica, l’intenzione di facilitarli nel costruire il libro della propria storia: foto dell’orfanotrofio, del viaggio adottivo, cartoline e canzoni del paese d’origine, oggetti lì acquistati che simboleggiano il paese, foto del bambino dal suo arrivo in poi.
L’approccio autobiografico è fondamentale per far rielaborare ai figli adottivi il proprio vissuto. Se si mette al centro la storia di vita di un bambino e lo si aiuta nella ricostruzione del proprio percorso, in relazione alle esperienze degli altri , si favorisce una migliore conoscenza ed elaborazione delle vicende del passato e si produce uno spazio mentale per una vita consapevole della propria storia futura.
La storia delle sue origini dovrebbe permettere al bambino di vedersi nella continuità e unità della propria esperienza, divenendo consapevole del dolore della interruzione nella sua storia. Questo suo vissuto dovrebbe, a questo punto, essere “ contenuto ” dai genitori adottivi che, entrando in sintonia col figlio dovrebbero saper prendere dentro di sé questi ricordi di dolore, decifrarli e pensarli, restituendo al bambino gradualmente l’integrità delle sue potenzialità. Quindi due sono le strade da intraprendere: supporto sociale e accettazione positiva e incondizionata.
Se non sviluppano patologie la forza della resilienza al loro vissuto deprivato, a volte abusante, permette loro di vivere nel qui e ora con i nuovi genitori abbastanza bene. .e in parte a “rinascere”.
Per situazioni molto dolorose e patologiche ci sono invece, per fortuna, bambini che attraverso le difficoltà di crescita risultano più forti e più dotati.
Alcuni di questi bambini, al contrario di altri, è come se avessero dentro di sé una forza, una struttura particolare, che permette loro di utilizzare al meglio le situazioni favorevoli che la vita originaria prima, e l’adozione dopo, offrono a loro.
Alla fine dell’anno scolastico , nei corridoi del Liceo Linguistico di Genova, mi sento chiamare “ Buongiorno, Dott., sono Natascia, ricorda? Quest’anno c’è la Maturità, sa gliel’avevo detto, eravamo d’accordo così : io con Serghjei, Yuri e Tatiana facciamo un viaggio. Andremo in Russia….” Nei suoi lunghi e luminosi occhi così belli c’era tutta la felicità di chi ce l’ha fatta, e andava alla ricerca, con i suoi compagni, di una parte di sé ora forse sostenibile.
Interessante, professionale , toccante questo articolo, di sicuro utile per genitori adottivi, pedagogisti, insegnanti ed operatori nel settore adolescenziale e non.
Mi è servito come supporto per l’esperienza difficile di bimbi russi adottati da mia cugina in questi anni e per il duro percorso ancora da compiere.
Bravissima l’autrice.