Vaso di Pandora

Recensione del libro: “L’Orchessa” di Irène Némirovsky

La spaventosa figura femminile del racconto rimanda alle fiabe di un tempo e compare, come per caso, alla vista del quindicenne che si trova insieme al padre malato in un Grand Hotel di una città termale dei Vosgi.

Il ragazzo nota questa donna nella sala di lettura e la soprannomina subito – con un intuito eccezionale – l’Orchessa, ed essa dell’aspetto di tale personaggio pare possedere diverse caratteristiche corporee: “Alta, robusta, aveva una sagoma quadrata, ginocchia grosse e lineamenti tozzi(…)nella sua bruttezza c’era qualcosa di forte e di aspro che mi affascinava”.

Ma non sono tanto i caratteri fisici quelli che inquietano di fronte a questa donna quanto la sua interiorità e il suo tragico rapporto con le figlie.

Si scopre che una delle ragazze è attrice : “Si chiama Edith de Lancy. Sono la madre di Edith de Lancy”

A detta della signora, la figlia è tagliata per essere un’attrice tragica, e ciò è stabilito per sorte la quale ha dotato la fanciulla della “base dell’anulare un po’ rigonfia, influenza di Apollo, dio del sole e dell’arte” .

Entrambe le figlie sono dotate di questa particolarità e, quindi, non stupisce se Edith è “un genio del teatro”, non certo un semplice talento che si forma attraverso l’esperienza.

La sua vera natura è Fedra…lei si schermisce: Mamma sono troppo giovane”.Ma queste sono cose di poco conto per la genitrice che ha già deciso la sorte delle due giovani appena le ha partorite : “ Ah che figlia, signore, che figlia! Sin dalla culla l’avevo destinata a essere attrice, cantante, o ballerina”

A niente vale il desiderio delle bambine di essere come tutte le altre : “ Ma le altre bambine non fanno così, mamma (…) le altre sono mediocri, e voglio che la mia bambina sia eccezionale”.

L’orchessa finisce per far esibire le piccole appollaiandole sul tavolo quando viene gente a casa: “Oh, lo so, mamma che posso solo morire o riuscire” e la donna cita l’esempio di un padre che picchiava la figlia per insegnarle a cantare: “Per fortuna non ho dovuto imitarlo!”

Ciò che balza agli occhi in questo breve racconto è la cieca determinazione dell’ Orchessa che pare quasi spedire le figlie, come soldati al fronte, ad incontrare la morte per una cosa da loro non desiderata e il piegarsi delle fanciulle, pur all’interno di difese estreme e disperate, al volere della madre per non perderne, se non l’amore, almeno l’ approvazione.

Esse appaiono come sue semplici appendici narcisistiche, plasmate da lei, spodestate del proprio Io, uccise lentamente, svuotate della loro interiorità frantumata per fare posto a quella ingombrante della donna, accecata dai suoi bisogni pregressi mai capiti e soddisfatti. “Non c’è niente di più pericoloso del desiderio insoddisfatto di una donna . Se la sbrigherà affinché i figli mangino a sazietà i frutti che le sono stati negati, e pazienza se quei frutti sono nocivi: farà in modo che ingoino la buccia, la polpa, il nocciolo, tutto, fino a strozzarsi” fa dire la scrittrice al padre dell’adolescente, entrambi, padre e figlio, testimoni del racconto della donna che parla di misere vite intrise di violenza mascherata d’amore, piene di mistificazione e di invadenza distruttiva.

Questa donna nell’arco della sua vita farà di tutto per sopravvivere alla propria sofferenza imponendola e proiettando i suoi dolorosi bisogni sulle figlie: userà la seduzione ripetendo loro che sono eccezionali, il ricatto e il senso di colpa dimostrando di vivere solo per esse e che ”Dovevano farcela (…)E poi, insomma, se non lo fai per te, fallo almeno per me e per tua sorella,sai bene che vivo solo per i tuoi successi”.

L’interesse per l’altro sesso viene soffocato sul nascere, un “ufficialetto squattrinato” viene allontanato perché può offrire troppo poco al confronto di ciò che la figlia – e quindi la madre – può meritare , troppo poco a paragone “dell’amore e del sacrificio di tale figura materna.”

E la ragazza si butta sul lavoro per non morire, percorrendo l’unica strada che l’Orchessa ha progettato per lei: “Si è gettata sul lavoro come una ragazza che entri in convento, mi rimane solo questo, diceva(…)L’unica ragione di vita qui, pare dolorosamente identificarsi con l’unica ragione di morte

Depressa e annichilita cerca resistenze estreme opponendosi almeno con una sorta di passività: “sembrava quasi che il brillante avvenire che le stavo preparando non l’attirasse “.

Questa prima figlia, Noelle, chiamata non a caso “fiocco di neve” è cagionevole di salute, ha una malattia di petto e il medico avverte l’Orchessa del pericolo ma lei : “sapevo che si sbagliava. Era mia figlia giusto, e io non mi sono mai ammalata”.

Mistificazione, negazione, anaffettività sembrano percorrere come un brivido mortale la mente di questa donna che non si accorge minimamente dell’estremo dolore di cui è impregnato il rapporto con le figlie : “Una sera ha preso freddo, otto giorni dopo era morta, tisi galoppante (…)Eppure i figli ci deludono sempre.

Non può non nascere il pensiero della morte della fanciulla come estrema soluzione per sottrarsi alla manipolazione della genitrice e all’insieme delle emozioni penose e contrastanti che quest’ultima aveva fatto nascere in lei, una via di fuga da una vita intollerabile, probabilmente la meno dolorosa possibile per la povera ragazza.

Per fortuna avevo Edith. Mi sono ripromessa che quanto non ero riuscito a fare con Noelle lo avrei fatto con Edith.

Ma Edith, di certo, usa altre difese, altre scappatoie: “ Il naso a patata l’aspetto di pescivendola, le guance piene, l’espressione ottusa, una ragazza presuntuosa e comune”

Presumibilmente, attraverso la sciatteria, l’ottusità e la stupidità Edith è disperatamente riuscita a contrastare l’onnipotente desiderio materno… A quale terribile prezzo, però !

Ma l’Orchessa non si ferma, di fronte alla sconfitta della figlia sopravvissuta, al direttore del teatro dice : “che ne direbbe di una bambina di sei anni(…) E’ la figlia di Lancy(…)la piccola ha un temperamento straordinario, è un’attrice nata, del resto l’ho cresciuta io stessa, è tutto dire…”

Tristi frammenti, nati fors’anche dal ricordo del travagliato rapporto che la Némirovsky ebbe con sua madre.

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