Vaso di Pandora

Rap in REMS

Questo lavoro presenta un’esperienza musicoterapica svolta presso la REMS provvisoria della Liguria “Villa Caterina”, sita a Genova Pra’.

In questa struttura si svolge un laboratorio espressivo finalizzato alla scrittura di testi musicali da parte dei pazienti, alla loro esecuzione tramite l’utilizzo di basi musicali già esistenti o originali e alla loro registrazione.
I brani sono stati poi oggetto di ascolto e riflessione.

Vista la scelta prevalente di utilizzare il rap come forma espressiva viene presentata una breve storia del movimento culturale hip hop, allo scopo di chiarire modalità e contenuti di questo genere musicale. Vengono presentati i risultati dell’attività accompagnati da alcune riflessioni personali.

Opero come Musicoterapeuta all’interno del Gruppo “La Redancia” in alcune strutture sociosanitarie poste tra Liguria e Piemonte: tre Comunità Psichiatriche, una RSA e presso la REMS provvisoria di Genova.
Svolgo la mia attività con un’utenza di entrambi i sessi che va dai venti ai settant’anni, in incontri di gruppo e individuali. Oltre alle particolari e specifiche sofferenze dovute alle patologie psichiche, molti pazienti sono anche autori di reato e con diagnosi di dipendenze che complicano il quadro clinico.

L’ascolto musicale rappresenta in comunità una forma di svago e di cultura molto diffusa, di gran lunga preferita ai libri e ai film.
È anche molto diffuso l’utilizzo della televisione, dei videogiochi e dei social.
Il mezzo più utilizzato per l’ascolto musicale sono i telefonini, che hanno sostituito i lettori mp3, che hanno a loro volta sostituito i lettori di cd.
La varietà dei generi musicali ascoltati è molto ampia, si va dalla musica classica al rock al pop, all’heavy-metal, alla techno, al rap, alla canzone d’autore. Una parte significativa degli ascolti, soprattutto per quanto riguarda i pazienti stranieri e quelli provenienti da alcune regioni italiane, è composta da musiche che assolvono anche alla funzione di ricordare la terra e la cultura di origine, per esempio tramite musiche tribali e brani in dialetto.

MUSICOTERAPIA IN REMS
La residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo REMS, è l’istituto nato in Italia dal superamento degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), indica una struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali ritenuti socialmente pericolosi. La gestione interna è di esclusiva competenza sanitaria, poiché afferenti al Dipartimento di Salute Mentale (DSM).
Si tratta di strutture residenziali con funzioni terapeutico-riabilitative e socio-riabilitative, con permanenza transitoria ed eccezionale. Di fatti, l’internamento in REMS, è applicabile “solo nei casi in cui sono acquisiti elementi dai quali risulti che è la sola misura idonea ad assicurare cure adeguate ed a fare fronte alla pericolosità sociale dell’infermo o seminfermo di mente”.
La REMS provvisoria della Liguria, presso la quale opero fin dalla sua apertura (febbraio 2017) ospita venti pazienti di sesso maschile.

Il progetto di Musicoterapia in REMS è così strutturato.

E’ un’attività di gruppo: la partecipazione è libera e aperta a tutti i residenti.

Setting e orari: uno dei due spazi comuni dotati di tv (la scelta è dettata dalla disponibilità e viene fatta all’inizio di ogni incontro). Gli incontri sono bisettimanali di due ore ciascuno.

Materiali utilizzati: a disposizione dei partecipanti viene messo un piccolo impianto di amplificazione con due microfoni, a cui è collegato un tablet, tramite il quale è possibile collegarsi a internet per scegliere le basi su cui “rappare” improvvisando (“freestyle”) oppure cantando in modalità karaoke brani di rapper conosciuti, utilizzando la tv collegata al tablet.

Obbiettivi: favorire tramite l’esperienza musicale, attiva o passiva, l’espressività e la socializzazione, abbassare il livello di aggressività trasformando creativamente la tensione. Approfondire la conoscenza dei pazienti in un ambiente amichevole e informale.

Per gli ospiti di questa struttura la possibilità data dall’esperienza musicale di portare in un “luogo altro” assume una valenza particolare. Ho avuto modo di approfondire questo tema nel lavoro con tre giovani pazienti che utilizzano il rap come veicolo di espressione e di comunicazione.
Ho dovuto così confrontarmi con un genere musicale distante dai miei ascolti abituali, e vincere il mio scetticismo. Ritenevo il rap un genere musicale “minore” e povero di contenuti, una “degenerazione” rispetto ad altre forme musicali precedenti più tradizionali. A formare questo pregiudizio ha certamente contribuito il fatto che il rap non ha fatto parte dei miei ascolti giovanili (sono nato nel 1969).
Come può attrarre così tanto i nostri giovani, mi chiedevo, questa “musica che non è musica”, così ripetitiva e lontana dalle nostre radici culturali?
Non siamo il paese del “bel canto”, che ha inventato la canzone, che ha dato i natali all’opera lirica e più recentemente a molti grandi cantautori?

In questi anni di lavoro ho cercato di prestare ascolto senza preconcetti a tutte le proposte musicali fatte dai pazienti, ritenendole, al di là del mio gusto personale, messaggi importanti, utili per costruire quell’”immagine interna” necessaria per vivere relazioni che possano essere significativamente vere e forse, terapeutiche.
Ho ascoltato molto rap, fatto di ritmi, di armonie elementari e ripetitive, di testi che affrontano i più svariati temi con un linguaggio diretto, che utilizza molti termini e frasi convenzionali.
Queste lunghe ore di ascolto non erano servite a farmi “entrare” emotivamente in quel mondo, che mi era rimasto estraneo, non avendo il rap mai fatto parte dei miei ascolti giovanili. È stato rilevato che ognuno di noi conserva in un luogo speciale del cuore le canzoni ascoltate durante l’infanzia e l’adolescenza (un effetto chiamato “reminiscence bump”), e anche quelle amate dai nostri genitori. Questa difficoltà ha creato in me la forte esigenza di approfondire la comprensione di questo linguaggio espressivo.
La domanda fondamentale era: perché ai giovani piace così tanto il rap?

Nella ricerca della comprensione mi ha aiutato la lettura di un libro scritto dall’italiano Andrea Di Quarto che presenta la storia del fenomeno artistico chiamato hip-hop a partire dalle sue origini culturali e musicali che ne hanno innescato la nascita nei primi anni ‘70 a New York, nel Bronx.
Comprendere l’ambiente in cui è nato il rap e le sue radici sociali e culturali mi ha aiutato a dare un ascolto più attento a questi ragazzi, al loro modo di esprimersi così diverso dal mio ma carico di motivazioni e urgenze umane, in cui ho potuto finalmente riconoscermi. Ecco un breve riassunto delle informazioni che ho raccolto.
 
COSA E’ IL RAP
Il rap (o rapping) è un genere musicale basato su un testo cantato con particolare attenzione alla qualità ritmica, senza melodia, su una base in quattro quarti, originale o già edita (ed in questo caso si usa la definizione “mixtape”), strumentale o elettronica.Sono molto usate allitterazioni o assonanze, possono essere usate rime, il testo può essere improvvisato (“freestyle”) o scritto in precedenza.
Le sillabe vengono chiamate “barre”.
Il contenuto armonico è elementare, pochi e semplici accordi ripetuti.

BREVE STORIA 
Senza la pretesa di essere esaustivo sul tema vorrei presentare una breve storia di questo genere musicale, allo scopo di fornire elementi utili per la comprensione della sua forte influenza sui giovani odierni.
È necessaria una precisazione lessicale: per Hip Hop intendiamo un fenomeno culturale che comprende l’arte dei graffiti, il rap, la breakdance e l’arte di mixare i dischi (anche dette le quattro arti).Nell’uso comune questo termine ha finito per identificare la musica rap.La storia del movimento hip hop comincia a New York.
Alla fine degli anni ‘60 il quartiere del Bronx ospitava immigrati di varie nazionalità, afroamericani, dominicani e latinoamericani recentemente arrivati, oltre a italiani e polacchi da più tempo residenti.
Necessità urbanistiche di una metropoli in forte espansione avevano portato all’inizio degli anni cinquanta alla progettazione di una superstrada a sei corsie che avrebbe tagliato in due il quartiere, ultimata nel 1973.
A causa di questo gigantesco progetto vennero rasi al suolo decine di migliaia di edifici, dislocando forzatamente in altre zone dello stesso Bronx circa centosettantamila persone.
Attuando una vera e propria deportazione, queste popolazioni vennero collocate in edifici fatiscenti, privi dei servizi essenziali, luce, gas, fognature, spingendo gran parte dei più giovani a vagare per le strade a causa della chiusura di molte scuole di quartiere.
Questa situazione fu dovuta ad una precisa volontà dell’amministrazione cittadina. Artefice di questa scelta scellerata fu l’assessore alla casa Roger Starr, che coniò il termine “planned shrinkage”, cioè “ritiro programmato”, per definire la strategia che avrebbe portato, nei suoi progetti, all’allontanamento spontaneo della popolazione da quelle aree.
La popolazione del Bronx scese tra il 1970 e il 1980 da trecentoottamila a centosessantamila unità.
Il rapido deprezzamento degli edifici diventati invendibili e per cui era diventato difficile riscuotere gli affitti portò da parte dei proprietari bianchi alla pratica dell’incendio volontario, allo scopo di riscuotere il denaro delle polizze assicurative. Anche gli inquilini avevano interesse a che il loro appartamento andasse a fuoco, per poter aspirare ad un alloggio di edilizia popolare. I roghi, appiccati da ragazzini pagati pochi dollari, erano così diffusi da far definire il Bronx come il “quartiere in fiamme”. È in questo contesto esplosivo, in un quartiere disseminato di macerie che, a partire dal 1968 prende corpo il fenomeno delle gang, che renderà il Bronx tristemente famoso in tutto il mondo. Le bande diventarono una seconda casa per i giovani, fornendo senso di appartenenza, un potere che sfidava la volontà scellerata di annullamento imposta dalle autorità e sfide di forza e coraggio.
Fornivano anche dall’altro lato un’attività di protezione della propria comunità, anche raccogliendo denaro per i più bisognosi e si opponevano, anche violentemente, allo spaccio di droghe pesanti che mietevano molte vittime. L’eroina veniva percepita come una droga tacitamente permessa dallo stato, una “droga dei poteri forti”, diffusa per avvelenare la popolazione.
La marijuana veniva vissuta invece come conviviale e non pericolosa, forse anche a causa dell’influenza della cultura giamaicana.
L’uso di questa droga è tutt’ora indissolubilmente legato alla cultura hip hop, che spesso ne proclama orgogliosamente l’uso nei testi del rap.
Come documentato anche da alcuni film celebri il territorio venne rigidamente diviso in zone controllate dalle bande in perenne guerra tra loro, situazione che portò ad un’escalation di violenza tale da richiedere un incontro pacificatore di tutte le gang, tenutosi a dicembre del 1971.
Questo evento segna una sorta di spartiacque nella storia del Bronx, che darà vita ad una trasformazione delle energie giovanili in un senso più creativo e costruttivo, a partire dalla diffusione dell’uso dei graffiti, la prima delle “quattro arti” a definirsi. Il fenomeno del “writing” contribuì a creare un’identità comune in questi giovani, che vedevano ora la città sia come spazio di vita sia come spazio di espressione.

Le gang si trasformarono con il tempo in “crew”, cioè gruppi di persone accomunate da un progetto artistico legato alle quattro arti e da un legame di fratellanza.Divenne anche più agevole lo svolgimento delle feste di quartiere, che fino ad allora erano spesso teatro di violenze tra appartenenti alle gang.
Queste feste, i cosiddetti “block party”, nacquero spontaneamente per sopperire alla mancanza di svago e leggerezza, aggravata dalla mancanza di denaro. Per i giovani del Bronx, infatti, i locali di New York dove negli anni settanta la disco music viveva il suo massimo splendore, erano troppo lontani fisicamente e troppo costosi.
Queste feste di quartiere si tenevano per lo più all’aperto o nei parchi pubblici, collegando gli impianti musicali (chiamati “sound systems”) all’illuminazione stradale.
La data di nascita del rap viene unanimemente posta l’undici agosto del 1973 quando in una festa di quartiere si esibì Dj Kool Herc, un ragazzo di origini giamaicane, pioniere del nuovo genere.

Questo nuovo genere rimase un fenomeno locale per diversi anni, legato alle esibizioni dal vivo dei primi Dj e MC’s, senza che ne sia rimasta traccia registrata.Un evento inaspettato diede un forte impulso alla diffusione di questo genere musicale: nella notte tra il 13 e il 14 luglio 1977 un blackout colpì New York, che rimase senza luce per 25 ore. Nel Bronx scoppiarono disordini e molti negozi furono presi d’assalto. Furono rubati numerosi impianti stereo, fino ad allora lontani dalle possibilità economiche dei giovani. Il quartiere si riempì così di sound system, favorendo la diffusione dell’hip hop.

LE RADICI MUSICALI E CULTURALI
Elementi dello stile e tecniche di “rapping” (dallo slang: to rap – parlare velocemente/trasmettere un messaggio battendo) si possono far risalire al “toasting”, una delle tecniche dei cantanti giamaicani che intrattenevano le persone durante i balli, improvvisando versi sulle tracce strumentali; oppure alla figura del Griot dell’Africa occidentale, sorta di musicista cantastorie, attore e poeta itinerante. Alcune di queste tradizioni migrarono negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nei Caraibi con lo schiavismo che portò gli africani nel Nuovo Mondo. È anche possibile che sia nato dall’uso di immigrati giamaicani che, vendendo ai mercati i 45 giri di reggae, li riproducevano dal lato strumentale (version) e decantavano (improvvisando) le qualità del disco in questione ai possibili acquirenti. Questa tradizione era realmente molto diffusa in Giamaica e nei ghetti dove gli immigrati risiedevano, ma molti storici del genere si dicono in disaccordo e preferiscono rimandare le origini del freestyle ai cosiddetti “Block party” nei quali i primi MC’s (“Masters of ceremonies”) si esibivano in ritornelli improvvisati sul ritmo dei dischi mixati dal DJ.

Un’altra importante influenza nell’hip hop è costituita dalle parti parlate contenute nei dischi di musica soul e funk di musicisti come James Brown e Isaac Hayes. I primi DJ di queste feste iniziarono ad isolare i “break” che comprendevano solo percussioni, ovvero le parti più danzabili, e ad estenderle con l’utilizzo del mixer audio e due dischi identici.
Ma una delle più importanti influenze sia per la cultura che per la musica hip hop viene dal genere musicale giamaicano chiamato “Dub”, che nacque come sottogenere della musica Reggae negli sessanta del secolo scorso. La musica dub annoverava tra le sue fila produttori come King Tubby , che creava versioni strumentali di dischi reggae famosi per le esigenze dei locali da ballo e degli impianti musicali, e che presto si accorsero di come chi ballava spesso rispondesse meglio a particolari “beat” dei dischi, isolati e ripetuti, ottenuti con percussioni intense e forti linee di basso.

Poco dopo, gli MC (Master of Ceremonies), che accompagnavano la musica nei locali, iniziarono a parlare sopra le parti strumentali dei dischi; tra questi vanno ricordati U-Roy, Dr. Alimantado e Dillinger, che diventarono popolari performer in questo particolare genere, e questa tradizione continua tuttora in quella che viene chiamata musica “dancehall”. Nel 1960 gli immigrati giamaicani portarono il dub a New York ed iniziarono a lavorare nelle feste delle comunità, nelle piste di pattinaggio o direttamente sulla strada. Un’altra significativa influenza proviene dalla musica blues, particolarmente dal tipico aspetto chiamato call and response, ovvero chiama e rispondi, che sopravviveva nella tradizione del “toasting”.

Un’altra forma del rap che ha radici lontane è quella dei “battle”, sfide a colpi di rime improvvisate da parte di due rapper che si confrontano in pubblico, nata nei primi anni ottanta. Vengono infatti documentati già dalla fine dell’Ottocento, tra gli afroamericani, i “dozens” sfide ritualizzate a colpi di insulti.
Un’attività che vedeva coinvolte due persone, solitamente maschi adulti, circondati e incitati da un pubblico impegnato ad alzare l’energia dello scontro.
Questa ritualizzazione del combattimento veniva praticata anche da donne e ragazzini. Si utilizzavano insulti grotteschi anche a sfondo sessuale, sminuendo e deridendo l’avversario, fino alla rinuncia di uno dei contendenti.Era uso dare inizio agli incontri con frasi convenzionali, fatto che si riscontra nel rap degli esordi (e poi nei battle).

Una forma più recente dei battle sono i cosiddetti “dissing”, sfide a distanza tra due rapper attraverso i testi cantati nel rap, apparizioni sui media o comunicati sui social. In questo caso il contenuto è meno ritualizzato e viene amplificato dagli echi dei social. Si può ravvedere qualche similitudine anche con lo “scat” utilizzato nel jazz.

Uno degli elementi identificativi che da subito caratterizzò i praticanti dell’hip hop fu l’abbigliamento particolare, fatto di vestiti larghi (oversize). Sembra che questa moda derivi dalla povertà estrema che costringeva le famiglie ad acquistare abiti solo per i primogeniti, abiti poi trasmessi ai fratelli più piccoli. Le case di abbigliamento, con l’avvento su larga scala della cultura hip hop decisero di produrre capi con queste caratteristiche.
L’industria dell’abbigliamento e degli accessori colse presto l’opportunità di raggiungere i giovani tramite gli artisti del rap.
I RUN DMC furono il primo gruppo di hip hop a beneficiare di una ricca sponsorizzazione da parte della Adidas, a quel tempo in crisi di vendite. Venne prodotta una scarpa da ginnastica con il marchio del gruppo, e i RUN DMC giunsero al punto di chiedere ai fan, durante un concerto, di alzare al cielo le loro scarpe per testimoniare la loro fedeltà. Quelle scarpe hanno ora un grande valore tra i collezionisti. Da allora la Adidas, oltre ad essere diventata un marchio di successo, fa parte con i suoi prodotti dell’iconografia dell’hip pop.
Un’altra celebre formazione, i “Fat boys” stipulò un contratto milionario con la Swatch, contribuendo alle fortune del marchio.
Il marchio esibito in bella vista sull’abbigliamento fu una novità specifica dell’hip pop, da allora elemento universale della cultura giovanile.

I temi affrontati nei testi della prima era del rap, la cosiddetta “old school”, erano spesso quelli della protesta sociale, della rivendicazione di maggiori diritti per i neri, dell’orgoglio razziale, alimentato da movimenti di pensiero inneggianti alla superiorità della razza afroamericana.
Va sottolineato che il rap divenne strumento ideale di espressione dei giovani e di tutte le loro istanze, da quelle più impegnate a quelle espressione del bisogno di svago, di divertimento e di evasione.

Alla fine degli anni ottanta nella parte occidentale degli Stati Uniti nasce il “Gangsta rap”. I primi autori di questo genere provenivano da Compton, un sobborgo degradato di Los Angeles, dominato dalle due bande criminali che si spartivano il territorio e le attività illegali, i Cribs e i Bloods.
I testi di questo nuovo genere di rap descrivevano per la prima volta in prima persona la vita degli afroamericani appartenenti alle bande criminali. Il testi utilizzavano senza censura lo slang della strada spingendosi fino a pubblicare brani come “Cop killer” apertamente ostili all’operato della polizia.

Numerose sono le forme che il rap ha assunto negli anni, fondendosi con altri generi musicali, dalla dance degli esordi, al rock al punk all’heavy metal, e soprattutto al pop.
Una forma musicale recente di grande successo è la trap, un sottogenere musicale dell’hip hop, nato nel sud degli Stati Uniti e sviluppatosi nel corso degli anni duemila.La musica trap è caratterizzata da testi cupi e minacciosi, che comunque possono essere molto diversi per ogni rapper. I temi tipici rappresentati nei testi sono la vita di strada tra criminalità e disagio, la povertà, la violenza, lo spaccio di sostanze stupefacenti, e le dure esperienze che l’artista ha affrontato nei dintorni della sua città.
La parola “trap” deriva da trap house, appartamenti abbandonati (solitamente nei sobborghi di Atlanta) dove gli spacciatori americani preparano e spacciano sostanze stupefacenti. Inoltre la parola trapping in slang significa “spacciare”. Questa musica è infatti molto legata ad ambienti e tematiche relative a vendita e dipendenza da droghe: inizialmente non è un genere vero e proprio, fino ai primi anni 2000 il termine indicava semplicemente un luogo (le trap house, appunto); successivamente comincia a essere utilizzato per indicare la musica legata a quel contesto.

Per quanto riguarda l’utilizzo di sostanze nel movimento hip hop va rilevato che alle origini del movimento l’eroina era vista come uno droga immessa sul mercato dal “potere” per schiavizzare ed annientare le persone residenti nei ghetti. Esiste quindi un codice non scritto che vieta l’uso droghe pesanti. Mentre invece era ed è diffuso l’utilizzo della cannabis ed i suoi derivati, anche per ragioni culturali legate alle origini giamaicane di molti immigrati del Bronx. Ho chiesto a M., ospite della REMS, se questa notizia è attendibile, mi ha detto: “Si è vero, nel giro dell’hip hop dovrebbe girare solo marijuana, io sono passato all’eroina ed è per questo che sono qua… perché ho incominciato a rubare (per procurarmela) e sono finito qua (in REMS Ndr)…”

In anni più recenti l’etichetta “Trap” viene associata pure a brani e artisti che utilizzano determinati suoni, anche se nulla hanno a che vedere con il mondo delle trap house di Atlanta. Tra queste caratteristiche sonore vi sono suoni di batteria presi dalla “drum machine” Roland TR-808, kick pesanti, sub-bassi distorti tipicamente dub, hi-hat a velocità doppia con frequenti rullate e un tempo che mediamente si attesta tra i 120 e i 140 bpm. La parte strumentale è di solito realizzata con sintetizzatori e VSTi, con melodie minimali, ripetitive, aggressive e/o ipnotiche. Se le principali influenze musicali sono il Southern rap e la Miami bass, con il tempo e la crescita della popolarità di questo sound si creano ulteriori sottogeneri che mescolano anche altre influenze a livello sonoro e di immaginario. In Italia primi esponenti a proporre questo genere sono stati Sfera Ebbasta e Dark Polo Gang, e più recentemente artisti come Ghali, Tedua, Izi.

ATTIVITA’ DI SCRITTURA DI TESTI MUSICALI
La collega Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica Aileen Mombelli ha ideato e conduce un’attività complementare a quella musicoterapica che propone la scrittura di testi da cantare ed eventualmente registrare durante l’attività di Musicoterapia. Questa attività si è rivelata particolarmente stimolante e ha arricchito la proposta musicoterapica di contenuti e possibilità espressive. Le sue caratteristiche:

Gruppo: aperto e eterogeneo.

Setting e orari: salone negli spazi comuni ogni mercoledì dalle 14 alle 16.

Obbiettivi: stimolare la fantasia e la creatività, avvicinare il paziente al proprio vissuto emotivo. Stimolare la verbalizzazione e l’espressione delle proprio emozioni. Creare la possibilità per il paziente di ottenere un risultato finale concreto di propria produzione.

Modalità di svolgimento: una prima parte dell’attività rientra nel gruppo di scrittura di testi musicali condotto dal Tecnico della riabilitazione psichiatrica Aileen Mombelli seguendo queste fasi: proporre o in alternativa chiedere al gruppo di proporre un argomento, un tema, un’emozione etc. dalla quale far partire una piccola discussione e scambio di idee. Chiedere al paziente di scrivere su carta un proprio testo ispirato agli argomenti discussi e realizzato sulla base di emozioni e pensieri derivanti dalla discussione. Una seconda parte dell’attività vede la collaborazione con il Musicoterapeuta Claudio Bocchi, conduttore del gruppo bisettimanale di Musicoterapia e consiste nella registrazione della canzone su base musicale già esistente scelta dal paziente o composta insieme al conduttore. Una terza e ultima parte consiste, in accordo con i pazienti, nell’ascolto insieme al gruppo delle canzoni prodotte da ognuno dei membri e conseguenti eventuali commenti e pensieri.

Conduttori dell’attività: Tecnico della riabilitazione psichiatrica Aileen Mombelli e Musicoterapeuta Claudio Bocchi.

CONTENUTI
L’attività di scrittura facilitata ha permesso di raccogliere diversi testi molto interessanti, che affrontano varie tematiche. Alcuni di questi testi sono stati in seguito registrati.
Scrive per esempio O.:

“il rap! il rap! giornate intere ad ascoltare il rap……per lo stato considerato come solo un ragazzo isolato……lo stato mi ha chiuso dietro le sbarre dal 2008……mi hanno preso per volgare e maleducato……ho un passato triste e lo sono di mestiere……non so più per chi sono/di chi sono/chi sono/per questo rappo, è stato l’unico mio amico/mio dio/il rap……spero che le rime verranno fuori, dolci … o moleste così, che posso esprimermi con caratteri e caratteri e provare a dare una nuova sensazione/avere un’occasione/magari altrove”.

Questa attività di scrittura ha avuto una ricaduta positiva anche durante le attività di improvvisazione svolte negli incontri di Musicoterapia. Si è creato un clima più fecondo e rilassato. Ho potuto così assistere ad una “battle” tra due pazienti, che hanno improvvisato in freestyle.
Ecco la trascrizione dei primi due turni di questa sfida:

Canta il primo rapper: “Zero sei un insulto per questo genere ritorna a scuola non sai leggere
Nella vita odi il carabiniere tu delle barre sei un deficiente
Pensi di fare testi ma i tuoi sono dei resti
Dici che credi nel rap ma si si
Ma i tuoi testi sono cisti
Cisti che esplodono nel nulla
Sei un bimbo dentro la sua culla
Non vali niente povero demente
Senza rima questo è rap non è trap
Io ormai sono sulla scena da vent’anni di trip da iena
Te da zero seriamente penserei a a bere a farti completamente
Questo è un dissing da te al mio confronto sei un bebè
Io valgo per tre io penso solo a me
Dici che spacchi ma se vendi fumo e tiri pacchi
Sono come gente tosta ti mando tritolo tramite posta
Sono potente come Jackie Chan ci ci come il cincillà
Sulla tua testa bro il rock and roll ha la festa
Quel che di te resta la spalmo sul pavimento con una cesta
Io si che sono il numero uno tu sei nessuno
Prova i microfoni uno due uno
Forse qualcuno quando le stelle cadono dal cielo
Il rap il mio siero
Faccio sul serio sono sincero
I tuoi testi non fanno impazzire ti lascio capire
Fre stammi a sentire con una bara ti lascio zittire
Passo e chiudo mi schiudo
Detta quest’altra atrocità
Sono qua di certo a zero … assolutamente la verità
Un povero demente questo è il tuo dissing deficiente
Non impari mai niente a fare queste cose qui
Sono così sono veramente io fottuto M’c
Te lo dico con questo genere qui
Adesso su le mani per questo M’c
Fate clap clap sono qua sono il dio del rap
Te lo dico ancora sono qui zitto e allora
Dimmi ora il tuo stile fai un po’ di freestyle e fammi capire”

Ed ecco la risposta del secondo rapper:

“Ciao c’è Zero ti rispondo sincero
Sono sereno come quando fuori piove
Con questo rap Clash ti mando altrove
Mi servono due ore no venti secondi
Parto da zero e arrivo dove cazzo voglio
Tu con un foglio non arrivi da nessuna parte
Scherzi a parte scherzi a parte col tuo rap potresti andare su scherzi a parte
Scherzi a parte dici che mi mando il tritolo in posta
Ma sei così rincoglionito che lo metteresti nella tua cassetta
E ci esploderesti sopra con quel culo pesante riportalo a casa
Impara da un bimbo asa isi
Impara come i terroristi isi
Ti faccio esplodere il tuo rap come quando saltano le manette e le marionette
Come te che dici che sono un bebè
Quale vent’anni di storia sei nato oggi
E oggi muori con questo rap
Io sono psycho non mi prendi neanche se tenti di correre a cento all’ora
Io sono rap troia tu sei rap suora
Non hai fatto un cazzo fino ad ora e continui ti ostini
Ma non farai un cazzo continuerai e ti ostinerai
Goodbye
Questo è per dirti che io vendo cioccolato e dici che faccio pacchi
Di fumo vero di fumo nero
Ma guarda che ne ho venduto tanto guarda come sei ingrassato nel frattempo
Fratello niente di personale
Ma te lo metto ti arriva la risposta da Zero
Come un sombrero
Ti arriva schietto come quando non trovi più la risposta
Quando ti si ficca nel culo la supposta
E non capisci bene la condizione dell’emozione
La verità è che secondo tu sei un perverso un po’ ricchione
E con il rap sei altrove
Ti ci rimando come una cover
Sai perché mi chiamano nessuno la gente come te?
Perché ha paura di me non vogliono fare in giro il mio nome
Sei un coglione
Se io sono un demente tu dei rapper sei niente
Sei arrivato dopo
E arrivi per me dopo me per me sempre”

INTERVISTE
Grazie al rapporto di confidenza costruito nel tempo ho potuto, nel dicembre del 2018, raccogliere due brevi interviste a due pazienti che frequentano l’attività di Musicoterapia e di Scrittura Creativa, e utilizzano il rap come mezzo espressivo.

Musicoterapeuta: Intervista a M. (Clash M’c)
M.: Sì presente!
Musicoterapeuta: La domanda è questa: che cosa è il rap?
M.: per me è uno stile culturale nato negli anni ’70 in america, dove ognuno poteva esprimere quello che voleva tramite parole, tramite fatti, disegni, ballando per strada, un po’ di tutto. Facendo scratching, infatti sono nati anche i primi dj, proprio dell’hip hop.
Musicoterapeuta: È cosa è per te il rap, invece?
M.: ma… per me il rap è… vita, è la storia infinita che ho da quando ho nove anni, sono ventidue anni che canto…
Musicoterapeuta: come è successo che hai incontrato il rap?M.: (ride) Ma, così per caso, sentendo della buona musica, tipo gli Afrika Bambaata, Kool Herc, che sono i primi pionieri del rap… poi dopo Dr Dre, Snoop Dog, Eminem, poi dal rap americano sono passato a quello italiano. Ho conosciuto i vari Clementino, i vari Bassi Maestro… Mondo Marcio e così via. Così io mi sono interessato a fare rime… e ora mi trovo dove mi trovo…
Musicoterapeuta: cosa ti da il rap?M.: Il rap mi da felicità, mi rende felice, mi rende creativo, mi tiene occupato… mi da felicità, mi riempie il cuore di gioia

Intervista a O. (Zero)

Musicoterapeuta: cos’è il rap? Per te ovviamente, cos’è, definiscimi cos’è
Zero: cos’è questa domanda?!
Musicoterapeuta: per come lo conosci tu, cos’è il rap?
Zero: Il rap è… il rap. Il rap è la vita, la passione, lo stile… è un approccio alla cultura… cos’è il rap? E’ musica… musica. Cos’è… è uno stile di musica prof, musica. E’ un buon modo per uscire dai problemi, un buon modo per crearseli, un buon modo per stare in mezzo… un insieme di cose no? Di rime, di pensieri in rime… ma… ho una domanda io, nella mia domanda, mi faccio: ma io che non sono un rapper , perché me la fate a me questa domanda?
Musicoterapeuta: come non sei un rapper?
Zero: no, veramente, io che non faccio il rapper… perché me la fate a me sta domanda?(ride)
Musicoterapeuta: Per me tu lo sei un rapper
Zero: No io no… vabbè scrivo hip hop ma…
Musicoterapeuta: Usi il rap per comunicare… ci riesci bene, in quel senso per me tu sei un rapper
Zero: Lo dite voi non lo penso io
Musicoterapeuta: Ok
Zero: Se io mi dovessi giudicare veramente… zero
Musicoterapeuta: Quando hai incontrato questa musica? Com’è successo?
Zero: Ma… da ragazzino… dodici anni, tredici, i primi incontri con… avevo i dischi di J-ax, nel novantasei, che ne so Eminem, i primi rapper famosi. Andando a vedere più nell’underground, ho scoperto altri…Ma poi io un periodo mi sono dato al punk, al metal, quindi proprio il rap lo ascoltavo ogni tanto… una cosa in più no? Sopra… così. E poi l’ho ripreso quando sono… quando mi hanno riarrestato nel 2008 ho ripreso… l’anno dopo a scrivere rap, ad ascoltarlo tanto… tutta la gente che ho sempre ascoltato comunque che mi ha supportato boh… per quanto sono coglione però è sempre quella no? E’ sempre lo stesso giro e alla fine boh… penso che sia quello il rap, anche magari quando metti il cuore nel fare una cosa di casa no? Però la stai facendo fuori per strada… e secondo me ci metti la faccia quindi già il rap… un pantalone largo una maglia larga un fratello una collana e vaffanculo un’improvvisazione in stazione… così… magari due canne una bottiglia di whisky cazzo ne so qualche wiz, per dire, ma anche senza… e per me è questo.
Musicoterapeuta: Ok
Zero: Un insieme di fratelli e sorelle si però questo poi andiamo sullo specifico allora ti direi… sto con nessuno ultimamente… con loro (gli altri ospiti della REMS Ndr) come gente che ho conosciuto non da tanto però con la quale mi sono affezionato tanto e… comunque…boh… cazzeggio così.

Nella prima intervista il paziente sembra sembra voler trasmettere un’immagine solo positiva e “accettabile” del rap e di se stesso. Facendo riferimento a due autori della prima era del rap (Afrika Bambaata e Dj Kool Herc) e alle “quattro arti” M. si presenta non solo come praticante del rap ma come appartenente alla cultura hip hop in senso lato, portatore della dignità del “praticante della prima ora”.

O., che invece rifiuta la definizione di rapper (forse perché non svolge attualmente questa attività nel contesto tradizionale del rap, la “strada”, vista la sua condizione di custodia) appare più libero nel parlare di sé. Descrive il rap come strumento espressivo capace di supportare diversi stati emotivi e momenti della vita: “… è un buon modo per…”. Descrive la crew: “… un insieme di fratelli e di sorelle” e un contesto complesso in cui viene vissuto il rap sia nei suoi aspetti positivi: “… quando metti il cuore nel fare una cosa…” sia negativi, in una gestalt fatta di precarietà, di estetismo (i riferimenti all’abbigliamento) degrado e uso di sostanze. Trovo assai interessante la distinzione che il paziente fa tra gli amici “di fuori” (i fratelli e le sorelle) e le persone che frequenta nella REMS, quindi in un contesto protetto, a cui si è “affezionato”, pur affermando che non “sta con nessuno”.

Ho avuto modo di interrogare anche un terzo residente della REMS che frequenta assiduamente l’attività. Non ho potuto registrare e trascrivere la sue risposte il cui senso però era questo: il rifiuto di essere considerato appartenente al mondo del rap, da lui considerato corrotto e rozzo. Va detto che la sua produzione musicale, per quanto riguarda i testi e la capacità tecnica è davvero notevole per quantità e qualità.

CONCLUSIONI
Il rap può essere considerato come una modalità espressiva che recupera, trasforma e utilizza tradizioni precedenti; sembra rifarsi, con la sua forma essenziale voce più percussioni, a generi musicali arcaici tribali di matrice africana e afroamericana. Forse la comunità afroamericana, più vicina nel tempo rispetto alla nostra alla forma tribale, è più incline a ripetere e ricostruire rituali ancora presenti nella memoria popolare.
Questo genere musicale si è innestato nella società digitalizzata, sfruttandone modi e canali di diffusione. Sono infatti gli ascolti e le visualizzazioni sulle piattaforme web a decretare successo e diffusione dei giovani rapper.
A differenza delle grandi rivoluzioni del novecento, nate su base ideologica, la rivoluzione dell’hip hop è su base individuale e narcisistica.Può essere considerato una versione moderna e “musicata” dei diari tenuti dagli adolescenti.
In un momento storico in cui le proposte di valori e di senso si sono diluite nella cosiddetta “società liquida”, la proposta dell’hip hop non è il benessere sociale o un nuovo ordinamento politico, sebbene nel periodo iniziale della sua diffusione le istanze di rivalsa della comunità afroamericana fossero fortemente presenti, ma il successo individuale fatto di simboli edonistici: il denaro, il sesso e i suoi sottoprodotti: auto sportive, abiti firmati, escort.
Il rapper di successo, trasmette ai giovani suoi simili la possibilità del ragazzo qualunque di avere successo, un successo vertiginoso e simbolicamente senza limiti e senza meriti, risposta all’immeritato anonimato in cui si sente confinato.
Il rapper non canta di diritto allo studio o al lavoro, ma della frustrazione di abitare un mondo senza scopo in cui la fratellanza e l’appartenenza alla cultura hip hop rappresentano l’unico luogo possibile dove essere autentici. Una famiglia, una soddisfazione personale e professionale sono semplicemente miti irrealizzabili appartenenti ad altre generazioni ed altri tempi.
Il rapper canta ostentando libertà di espressione, contro tutto e tutti, legittimato dall’essere stato costretto a crescere in un mondo disumano e senza scopo, ereditato dalla disattenzione delle generazioni precedenti. Così come il Griot, protetto/consigliere del re a causa del suo temuto potere magico, il rapper, in virtù dell’essere figlio della strada (sopravvissuto al Bronx con le sue privazioni, che lo rendono un luogo “impossibile” da abitare) ha il potere di dire quello che gli pare (la “verità”).
Non a caso nell’ambiente rap old school, ed in parte ancora oggi la “credibilità” di un artista è legata alla sua vicinanza alla strada. La strada diventa così simbolicamente “il re” del rapper, la sua divinità, con il suo carico di ambiguità e ambivalenza, odiata e amata.
Il rap è anche lo strumento perfetto per raccontare un mondo in cui l’adolescenza sembra non avere mai fine e spesso questo racconto di una ricerca di identità fa da sfondo ai testi.
Forse vale la pena di chiedersi se non sia il “modello Bronx” con le sue macerie materiali e soprattutto il vuoto di valori e opportunità ad essersi diffuso nel mondo piuttosto che il rap. Più che un sottoprodotto della cultura giovanile, questo genere musicale (o sarebbe meglio dire questo fenomeno culturale) va considerato secondo me come l’espressione di un gruppo sociale regredito ad un‘organizzazione tribale, ma non per questo meno autentico e meno degno di ascolto.
A parte gli inevitabili estetismi propri del genere va colto come un prezioso messaggio il grido di aiuto di una generazione (ormai diverse generazioni) di giovani costrette a vivere in una “strada” per molti solo simbolica, ma reale e cruda nel portare un vuoto di senso e valori, proprio come le macerie e la desolazione del Bronx crearono la rivalsa artistica dell’hip hop, in grado di ridare voce a quell’umanità abbandonata, che ora come allora chiede ascolto.

BIBLIOGRAFIA
Di Quarto A., La storia del rap, A.SE.FI, Milano, 2017
De Rienzo N., Hip hop, parole di una cultura di strada, Zelig, Milano, 2004

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