Vaso di Pandora

Questioni di storia di L. Cortesi

Recensione al libro di Lorenzo Cortesi

Suggestiva e utile carrellata sulla storia, che parte dall’origine di questa disciplina con il suo svincolarsi dal mito, realizzata da Erodoto e dal più rigoroso (secondo me) Tucidide. Svincolarsi mai completo: l’esempio più importante del sovrapporsi anche attuale dei due ambiti sta nella letteratura sacra, in particolare quella biblica cui pure Cortesi dedica un capitolo.
La letteratura storica o quasi – storica nasce, dice l’A., come narrazione, come intrattenimento: cita a prova di ciò proprio Erodoto, che dice di voler narrare ai suoi contemporanei, curiosi e interessati, le “opere grandi e meravigliose compiute da Greci e barbari”. Credo che potremmo, come più remoto antecedente, ricordare anche Omero, ammesso che alla sua opera, nata come intrattenimento orale, si possa già attribuire un qualche carattere storico.

Si sono poi sviluppati altri modelli: quello della storia istruttiva o pragmatica ci invita a conoscere il passato quale guida per il futuro. Ancora Tucidide scrive un vero e proprio manifesto di questo indirizzo: “basterà che la giudichino utile quanti vorranno sapere ciò che del passato è certo, e acquistare ancora preveggenza per il futuro, che potrà, secondo il corso delle cose, ripetersi per la legge naturale degli uomini, sotto identico o simile aspetto. Sicchè quest’opera è stata composta perché avesse valore eterno”. Sono parole che potremmo sottoscrivere anche oggi, e che presuppongono un progetto di tipo scientifico: l’accertamento rigoroso di ciò che è veramente accaduto. Con questo ci si collega al terzo modello proposto dall’A.: la storia evolutiva o genetica, fondata proprio su un rigoroso accertamento della verità dei fatti. Facile però a dirsi, meno a farsi.

Come, più o meno, tutte le discipline, la storia aspira a porsi come scienza, ma incontra in ciò non poche difficoltà. Intanto, è evidente che non può trovarvi posto quell’intervento cruciale che è l’esperimento; e che anche gli studi osservazionali sarebbero di corto respiro perché ogni evento storico è in sé unico e irripetibile (un po’ come gli eventi mentali?). L’A. lo fa notare, anche se citando Duby ricorda pure che la storia è, tra le scienze umane, quella che ha costruito l’armatura del suo metodo prima delle altre. La storia comparata affronta il problema analizzando sistematicamente le differenze e analogie fra due o più fenomeni storici.
Una base ineludibile è comunque quello che l’A. chiama il DNA dei documenti: una minuziosa analisi critica delle fonti e della loro utilizzabilità, che deve fare i conti di possibili falsi come quello della falsa donazione dell’intero Impero occidentale o giù di lì da parte dell’imperatore Costantino alla Chiesa; con la tendenziosità di origine religiosa o comunque ideologica che può inquinare più o meno irreparabilmente le fonti.

Ma questo è solo l’inizio. Si apre immediatamente il problema della neutralità dello storico, e della sua possibile illusorietà. Lo storico dovrebbe trovare il suo modello (un tantino ambizioso, vero?) in Melchisedec, che “non aveva padre né madre né principio o fine di vita”; dovrebbe completamente estraniarsi dalla propria storia personale. Se vogliamo cedere alla suggestione di un raffronto fra due campi diversi ma non del tutto, potremmo ricordare l’invito di Bion all’analista: lavorare senza memoria e senza desiderio. Eterno problema del confronto fra obbiettività e partecipazione, uno dei nodi centrali nel nostro lavoro psichiatrico. Fondamentale il contributo al problema offerto da Gadamer con il suo concetto di circolo ermeneutico: a un pre – giudizio, preliminare e personale intuizione dell’essenza del dato, deve succedere una verifica empirica convalidante o disconfermante. Superfluo dire che, come ha ricordato fra gli altri Ballerini, anche questo modo di procedere può applicarsi al lavoro psichiatrico non meno che alla ricerca storica.

Di cosa si occupa la storia? Quella tradizionale, quella che abbiamo studiato nella scuola media (almeno i più anziani fra noi) era fondamentalmente una storia di battaglie, di vittorie e sconfitte, del sorgere e decadere di imperi. Ma è emerso il bisogno di estendere il discorso all’economia, allo sviluppo delle scienze e della tecnologia, ai costumi. E a me sembra che perfino il mondo della natura, abitualmente contrapposto a quello della storia, lo sia oggi molto meno radicalmente: il concetto di origine delle specie e dei loro successivi mutamenti e adattamenti nel tempo non è un concetto a–storico.

Infine Johan Huizinga, citato dall’A., è giunto a parlare di “storia del corpo, storia dei sensi, storia dell’immaginario”. Mi sembra che, così intesa, la storia finisca con il costituire più che una disciplina un invito a tutte le discipline a uscire dall’angustia di un’ottica sincronica affiancandole quella diacronica. Aggiungerei: in questa prospettiva possiamo dire che la storia la creano gli uomini in ogni momento; parlare di storia è parlare di noi stessi , come del resto in tutte le scienze umane. E’ un farsi continuo, che ci coinvolge. Diviene quindi, credo, molto attuale il “verum ipsum factum” di quel grande storicista che è Giambattista Vico.

Egli ha parlato di corsi e ricorsi storici, ritenendo che la storia proceda a cicli in cui fondamentalmente si riproducono gli eventi, certo non nei dettagli ma nei lineamenti generali; pensa che nei singoli “corsi” si verifichi ripetutamente una sorta di evoluzione della psicologia sociale, come la chiameremmo oggi: a una età barbarica in cui gli uomini sentono senza avvertire ne segue una in cui avvertono con animo perturbato e commosso, e infine – illuministicamente – giunge l’affermarsi del pensiero razionale.

Certo Vico non è stato il primo a voler dare agli avvenimenti storici un ordine sistematico portatore di significato. Esemplare in questo senso, prosegue l’A., la chiave di lettura cristiana. Eusebio di Cesarea divide la storia giudaica e cristiana in sei periodi. Per Agostino la resa di Roma ai Visigoti (sempre questi tedeschi!) segna la fine di un’epoca e l’avvento della Città di Dio, ben più gloriosa di quella umana necessariamente caduca. Il varazzino Jacopo da Varagine, nella interpretazione che Le Goff dà della sua legenda aurea, divide il tempo in quattro parti: quello della deviazione, da Adamo a Mosè; del rinnovamento, da Mosè alla nascita di Cristo; della riconciliazione, che arriva alla Pentecoste; e l’attuale del pellegrinaggio, che giungerà fino al Giudizio finale.

E’ poi nel secolo diciassettesimo che prende forma una periodizzazione laica: è allora che viene inventato il termine “Medio Evo” come età intermedia fra quella greco-romana e quella moderna. E’ solo successivamente, con l’illuminismo, che il termine si caricherà dell’accezione dispregiativa come di epoca di ignoranza, superstizione, barbarie: lo stesso Vico lo considera un esempio di “ricorso”, epoca cioè in cui le conquiste evolutive del precedente “corso” vengono perdute: si torna indietro.

Si può ipotizzare che la storia abbia un termine, una fine eventualmente connessa a una finalità? Certo questa idea è presente nelle mitologie, come il Ragnarok di quella scandinava. In anni abbastanza recenti lo storico nippo – americano Fukuyama ha salutato il collasso del comunismo ritenendo significasse la fine della storia, che si realizzerebbe con la universale benvenuta affermazione delle liberaldemocrazie. Egli credeva di trovare conferma della proprie idee in una presunta prossima adesione anche del mondo arabo ai valori liberaldemocratici, con le c.d. “primavere arabe” che parevano preannunciare qualcosa di simile alla Primavera di Praga, una delle prime incrinature del totalitarismo sovietico. Ma pare che quei paesi prendano tutt’altra strada… La sua è comunque una delle posizioni che in vari modi ricercano nella storia un senso e quasi una finalità, un tendere a un assetto definitivo e in qualche modo perfetto. E’ mi pare, una posizione in qualche modo escatologica che, senza voler risalire al preannuncio cristologico del Giudizio finale e del Regno di Dio, trova un illustre precedente in quella di Hegel, che riteneva che la sintesi suprema, finale realizzazione dello Spirito, si verificasse invece con l’assolutismo prussiano.

Hegel è stato forse il massimo esponente di quell’indirizzo che ritiene di poter trovare nella storia un senso, una direzione in cui procede al di là delle circostanze accidentali che ne costellano il cammino, e che anzi possono costituirne tappe rivelantisi necessarie al di là delle apparenze e dei propositi individuali. A suo avviso gli eroi della storia – si esprime Cortesi -sono strumenti inconsapevoli della ragione suprema; è il concetto di astuzia della ragione. E’ chiaro che questo tentar di andare al di là del dato empirico congiunge necessariamente la riflessione storica a quella filosofica, tendendo ad apparentare le due discipline. Essa in Italia, passando per Croce e soprattutto per Gentile, ha fatto sì che i due insegnamenti fossero collegati nella prassi dei licei, e addirittura affidati allo stesso didatta.

La faticosa ricostruzione del passato operata dalla ricerca storica a partire da indizi spesso parziali ed equivoci mi ricorda quello del lavoro psicoanalitico, specie alla sua prima configurazione come delineata da Freud: una indagine sulla storia individuale. E’ un parallelo cui, un po’ di striscio, ci invita lo stesso Freud, paragonando il proprio compito a quello dell’archeologo, e anche esprimendosi così: “La storiografia … creò una storia della remota antichità. Era inevitabile che questa preistoria diventasse più una espressione delle vedute e dei desideri del tempo presente che una ricostruzione del passato, perché molte cose erano scomparse dalla memoria del popolo, altre erano state deformate, più di una traccia del passato veniva tendenziosamente interpretata nel senso del presente, e per giunta non si scriveva certo la storia per ragioni di obbiettivo desiderio di sapere, ma perché si voleva agire sui propri contemporanei. Orbene, la memoria cosciente che un uomo ha dei fatti della sua maturità è assolutamente paragonabile a quella storiografia e i suoi ricordi d’infanzia corrispondono realmente quanto ad origine e attendibilità, alla storia, tardivamente e tendenzialmente riordinata, della epoca primitiva di un popolo”.

Un capitolo del libro viene dedicato alle biografie, con i sottogeneri delle agiografie e delle autobiografie, per non parlare delle genealogie. A me pare facciano categoria e sé opere come ad esempio il De bello gallico in cui il protagonista centrale di un importante evento storico si fa narratore dello stesso: ne deriva una componente autobiografica anche se certamente minore in confronto al carattere propriamente storico dall’opera, che lo scrittore sottolinea quando parla di sé stesso ricorrendo non al pronome “io” bensì al nome proprio “Cesare”. Parla invece in prima persona Winston Churchill nella sua Storia della guerra mondiale.

Ovviamente intricatissimo il problema delle cause e del “se…”. Se c’è una cosa certa, è che nessun evento storico ha una sola causa, ma è sempre sovradeterminato. Ma quand’è che il confluire di più elementi raggiunge la massa critica sufficiente a innescare un evento o uno sviluppo storico importante? Qual è il ruolo del caso, ammesso che ne abbia uno e che lo stesso concetto di caso sia legittimamente impiegato? Ha senso chiedersi che cosa sarebbe successo se qualcuno degli elementi causali fosse venuto a mancare? Certi sviluppi storici avrebbero potuto prendere un’altra piega o sarebbero stati comunque inevitabili? Se Varo avesse schierato più accortamente i suoi legionari e avesse battuto Arminio a Teutoburgo, i Romani avrebbero potuto sottomettere anche la Germania? E allora sarebbero state inconcepibili, secoli dopo, le invasioni barbariche? Quale piega avrebbe preso la storia d’Europa? Ha senso, in generale, parlare di “effetto farfalla”, per cui un evento da niente può avere conseguenze enormi?

Il libro offre più quesiti e dubbi che risposte: ma proprio in ciò sta il suo pregio maggiore: è indice di realismo e di profondità di riflessione.

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