Commento all’articolo apparso su
La Repubblica, 15 maggio 2015
“QUARTO, IL TEMPO SI E’ FERMATO NELL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO VUOTO E DEGRADATO”
La Redazione
“Tutto fermo. Nessun progetto”, depreca il giornalista che ha visitato quei locali. Normale, per un complesso di edifici abbandonato e in attesa di una ristrutturazione (chissà quando…).
Eppure, è suggestivo ricordare che il tempo appariva fermo anche nelle strutture manicomiali quando, alla loro maniera, erano funzionanti.
Scrivevano De Martis, Petrella, Caverzasi: “per i familiari il tempo sembrava essersi fermato…” e “il reparto sembrava animato da fantasmi sconosciuti da cui esalava un’atmosfera di morte. Questi fantasmi parevano chieder solo di esser dimenticati”.
Curiosamente, si esprime in modo non dissimile il giornalista nel parlarci dei locali oggi abbandonati: “Filtra poca luce qui, si prova un senso di angoscia camminando verso il buio, perché pare di vedere uno che cammina nella penombra… A volte tornano anche loro, i malati. Ce n’è uno che gira per il parco… ma appena gira l’angolo sparisce nel nulla. Come un fantasma”. Analogie non casuali: infatti il giornalista trova nell’ex manicomio qualcosa di più e di diverso che in altri locali abbandonati, avvertendo una suggestione legata al passato.
Per chi come me ha lavorato per decenni in manicomio, tante sono le cose che questa descrizione evoca: la teoria di stanze, di interminabili corridoi, anche se le stanze erano quasi un lusso se paragonate a certi enormi stanzoni-dormitori collettivi; il “giorno di doccia”, evocante le docce collettive che sostituivano un momento che dovrebbe essere così intimo e personale; intimo e personale come il vestiario, sostituito invece da una grigiastra uniforme. I locali dell’accettazione mi ricordano i miei servizi di guardia e l’ingresso del nuovo paziente, spesso coattivo ma non raramente richiesto da chi cercava un rifugio purchessia, e doveva accontentarsi di quel che c’era. In ogni caso, facile entrare, difficile uscire, per la mancanza di alternative e risorse.
Come fosse un racconto storico, poi, la struttura porta i segni del cambiamento che lentamente vi si è fatto strada: come il cartello del centro socioterapico Franco Basaglia.
E poi, le scritte e disegni sui muri. Colpisce il ripetuto tema del corvo, animale che ha tanto spazio nel nostro immaginario (per il colore? Per la notevole e inquietante intelligenza? Perché può esser segnale della presenza di cadaveri?). Certo, è o è stato animale totemico per più di una tribù “primitiva”, e presente nei miti. Nel racconto del diluvio ha una parte importante quando viene inviato a verificare se l’inondazione è cessata, se fra l’umanità e il Creatore è pace fatta; evidentemente senza risultati positivi, se l’incarico passa poi felicemente alla colomba. Per Calvino, “ultimo viene il corvo”, annuncio di morte imminente. In Pirandello il corvo di Mizzaro innesca una catastrofe che ha la sua origine in una impossibilità a comunicare: “non è a dire che il corvo non gridasse le sue ragioni: le gridò, ma da corvo: e non fu inteso”. Infine, il corvo è divenuto metaforicamente sinonimo di vile anonimo delatore, come nel grande film di Clouzot (1943); o di chi biecamente approfitta delle disgrazie o addirittura della morte altrui.
Cosa aveva in mente l’ignoto artista nel dipingere un “inquietante, gigantesco” corvo nero? Certo, e comprensibilmente, nulla di positivo; ma forse con intenzione apotropaica. Gli rappresentava un fantasma interiore oppure la straniante e minacciosa istituzione? Probabilmente l’uno e l’altra, uniti in una angosciante sinergia.
Quanto alla condizione del luogo, è evidente che rende necessaria e doverosa una ristrutturazione atta a fermare il degrado e consentire una nuova fruizione degli ambienti; è importante che, come annunziato dal Sindaco Doria, essa ne preservi anche la memoria storica, possibilmente in modo non meno pregnante rispetto allo stato attuale che, a modo suo, è un importante memorial.