Vaso di Pandora

Quant’è sottile la linea rossa che separa corpo e mente

Problema vecchio quanto il nostro pensiero.  E’ ben difficile – se non per la fede – considerare corpo e mente due entità distinte e separate, poiché  nessuno è mai riuscito a fornire prove convincenti del possibile verificarsi di attività mentali svincolate da un corpo fisico vivente.

Essi tuttavia, benché facce di un’unica realtà, sono sottoposti a due  statuti epistemologici diversi, come ben evidenziato da Cartesio. Giustamente egli diceva che la nostra attività di pensiero è la sola cosa di cui siamo davvero certi, ben più che dei dati sensoriali; ma ciò è vero soltanto per il mio vissuto – cognitivo e/o emotivo – individuale, mentre quello dell’altro da me  è difficilmente accessibile.
E noi abbiamo bisogno – soprattutto nella teorizzazione scientifica ma non soltanto – di superare il dato individuale per accedere a “verità” o almeno a linee guida generali, trasmissibili e condivisibili.   E’ questo uno dei limiti dell’introspezione.
Da qui, credo, il ricorrente tentativo –  anch’esso vecchio quanto l’umanità – di considerare l’attività mentale come una “cosa”, oggettiva quanto le realtà appartenenti  al mondo esterno.
Da qui il concetto di “anima”, dal greco “anemos” che significa soffio, vento, e dunque qualcosa di  concreto, quasi materiale tanto che, ricorda  Monticini  rifacendosi a Cazzolaro, qualcuno ha preteso di pesarla. Da qui, anche, il termine cartesiano “res cogitans”, anche se è difficile ritenere  che le cose  pensino.
Avvicinandoci a noi, penetrante l’analisi di Karl Jaspers: la realtà mentale (preciserei nuovamente: dell’altro) non può essere oggetto di esperienza diretta, ma solo desunta da una serie di fenomeni che, appartenendo al mondo esterno, sono da noi percepibili: “l’anima in sé non è un oggetto.
Lo diviene in quanto si mostra percettibile nel mondo: con manifestazioni somatiche concomitanti, espressioni comprensibili, comportamenti, atti, linguaggio”.
Dunque, se certamente sperimentiamo i  nostri personali eventi mentali, non possiamo che rappresentarci in qualche modo quelli altrui.
Credo dunque che quello di Jaspers sia un punto di svolta, un giro di boa: egli considera ancora l’attività mentale come un oggetto (tanto da impiegare il termine “anima”) ma rileva che come tale non è coglibile; anche se il suo è ancora un approccio oggettivante, tuttavia ne rileva i pesanti limiti.
Crea così i presupposti perché si apra una nuova direzione: non più da una parte una mente che tenta di osservare obbiettivamente e dall’altra una mente oggetto di osservazione scientifica; ma un approccio conoscitivo (e terapeutico) che punta all’intersoggettività.
E qui si aprirebbe un discorso troppo lungo : dall’incontro empatico al valore conoscitivo e curativo del controtransfert, a quello specifico momento di incontro con le neuroscienze propiziato dalle ricerche sui neuroni specchio.
A titolo assolutamente personale, mi pare tuttavia che gli importanti progressi delle neuroscienze non rovescino i termini del problema: anche nell’ipotesi – ancora lontana dal realizzarsi – di una totale corrispondenza fra  le realtà mentali e quelle dell’anatomia, del neuroimaging e della biologia  molecolare, credo che le prime manterrebbero pieno diritto di  essere considerate in quanto  tali.
Poiché la mia mente è ciò che più indiscutibilmente mi costituisce, mi pare impensabile che possa esser compiutamente rappresentata da una qualche realtà esteriore o comunque appartenente, come il mio soma, ad aree meno centrali del mio Sé.
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