Commento all’articolo apparso su Il Corriere della Sera, il 7 agosto 2016
Feuerbach ricordava che noi siamo quello che mangiamo: in realtà è piuttosto vero perché l’umano si struttura, dalla prime esperienze vitali, a seconda di come “mangia” il mondo che gli si propone dalle prime relazioni matriciali… prima di tutto la prima relazione con l’oggetto materno o chi per esso. Quelle prime relazioni fondano il nostro modo di essere al e nel mondo: se esse saranno state positive, noi svilupperemo bene la nostra naturale empatia e così andremo a conoscere il mondo, il mondo relazionale soprattutto. Vi sono molte possibilità che questo non avvenga vuoi per traumi famigliari, fin dalla prima relazione d’oggetto con la madre o chi per essa, vuoi per traumi ambientali: pensate ad es. ai bimbi che nascono e crescono in situazioni di notevole disagio ambientale.
L’amore, il piacere del genitore e poi della coppia genitoriale, quando esiste, nel crescere il bimbo sono potenti antidoti a tutte quelle sofferenze legate all’alimentazione che oggi vediamo così diffuse, dall’Anoressia nervosa alla bulimia, al Binge Eating Disorder fino alle forme di obesità di natura psicogena.
Peraltro, come ricorda Zygmun Bauman, viviamo nel nostro occidente un’esasperazione per l’interesse per le forme corporee e per il cibo, un cibo che diviene triste oggetto metaforico del disagio psichico: da un lato un interesse esasperato per le diete di ogni tipo, dall’altro un interesse per cucine sempre più raffinate, ma spesso fredde e poco umane, che non si pongono il fine di un sano e discreto piacere per la tavola ma di segnare piuttosto differenze sociali ed addirittura culturali.
Per Bauman in uno e nell’altro caso perdiamo in parte così la nostra umana ricerca del piacere e del cibo come tramite, veicolo, di relazioni interpersonali significative così come invece dovrebbe avvenire dalle nostre prime esperienze vitali. Noi infatti cominciamo a conoscere il mondo attraverso le esperienze dell’oralità poppando il latte, tenendo con le mani il seno materno o il biberon che “l’oggetto materno” ci pone: così nasceranno la nostra curiosità, il modo di porci con gli altri e di esplorare la realtà o piuttosto le nostre diffidenze primarie o addirittura imprinting traumatici che, ahimé, ci accompagneranno nella vita caratterizzando ogni nostra esperienza successiva.
L’educazione alimentare è, a mio avviso, l’educazione alla vita ed oggi purtroppo non di rado l’educazione alla vita non è buona e vi è ben poca tutela per i cuccioli d’uomo, ben poco rispetto per il loro diritto a crescere sviluppando al meglio le umane e comuni potenzialità mentre la violenza relazionale si diffonde fin dalle prime esperienze con il mondo.
Con tutto il rispetto per le vicissitudini patologiche, o comunque sofferenti, nell’incontro con il cibo presenti oggi nel mondo occidentale, vicissitudini delle quali mi occupo nella mia professione, la mia preoccupazione maggiore va a tutte quelle realtà nel mondo dove i bimbi non possono crescere bene o addirittura non possono crescere: questa è un’ingiustizia incommensurabile.
Sono consapevole di esprimere un pensiero sgradevole e poco accettabile ma, dopo tanti anni di lavoro su queste tematiche e queste patologie , ritengo , o piuttosto ho la fantasia, che queste patologie, e soprattutto i pazienti e ancor più le pazienti che ne soffrono, abbiano a che fare con il disagio della nostra civiltà occidentale che non può vivere comunque bene l’avidità senza colpa con la quale l’ideologia economicista “divora” il mondo e le vite degli oppressi.
I pazienti, in fondo, pur con modalità espressive non utili per una vita migliore, esprimono un pensiero ribelle contro queste modalità crudeli, non rispettose per “l’altro da noi” che l’ideologia liberista e la sua stupida cultura consumista ci vogliono imporre, ogni giorno della nostra vita quotidiana.
Quando il commento all’articolo è più interessante dell’articolo stesso. Condivido in buona sostanza il pensiero del Prof. Ferro. Sono convinto che “la prima relazione con l’oggetto materno o chi per esso” è di fondamentale importanza e in certi casi “vincolante”. Sebbene per carattere sono portato a credere che “le prime esperienze vitali” o “il mondo che ci si propone dalle prime relazioni matriciali” non rappresentino un destino ineluttabile. Ovviamente, spero sempre, se non altro per il lavoro che svolgo, che l’individuo, anche con il sostegno dovuto, laddove necessario, possa sviluppare la necessaria resilienza per opporsi alle avversità e alle brutture della vita.