a cura di Giovanni Giusto, Carmelo Conforto, Roberta Antonello. Pearson Editore, 2015.
Sono trascorsi sedici anni dalla chiusura definitiva degli Ospedali Psichiatrici della Liguria, Cogoleto e Quarto, e ben venticinque dall’apertura della prima Comunità afferente al Gruppo Redancia. La storia della vita comunitaria-terapeutica porta in terra ligure diversi nomi; tra questi Redancia si pone a buon diritto “in prima linea”, tanto in termini di onere quanto di onore: possiamo indubitabilmente pensare alla “prima linea” come ad un luogo di riconosciuto merito, ma la cruda realtà è che “essere in prima linea” equivale, oggi più che mai, ad un “resistere in trincea”.
Comunità terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano
Non a caso, il primo dei meriti di “Comunità terapeutiche. Storie di lavoro quotidiano” è di offrire al lettore punti di vista vari, realistici, sempre credibili. Direi, in altri termini, che il plusvalore di un’esperienza reale, iscritta nella storia di innumerevoli vicende personali, si percepisce con chiarezza. Troppo spesso il nostro lessico iperspecialistico allontana infatti i lettori dal piano della realtà, risultando etereo, lontano ed in buona sostanza “freddo”.
Qui, invece, ci si scontrerà con qualcosa di duro, di pragmatico, che “resiste”. E la stessa sensazione di fondo che ben conoscono coloro che lavorano con persone affette da malattie mentali. Una sorta di “resistenza residuale” della malattia, che sembra avere a che fare con l’esperienza del reale tout-court, di un limite alla possibilità di operare delle simbolizzazioni che è intrinseco alle possibilità strutturali del linguaggio. Ciò che si può fare per coloro che soffrono di un dolore mentale intollerabile è sempre parziale, e allo stesso tempo, proprio per questo, determinante. Le storie raccontate nel libro sono le storie di quello che si è potuto fare e lasciano presagire ciò che si potrà fare; saggiamente non evocano fantasie onnipotenti e non suggeriscono soluzioni circolari, chiuse, complete o definitive.
Viceversa queste narrazioni propongono, in quanto reali, quel margine altrettanto reale di lavoro effettivo e di concretezza che ci si aspetta dai professionisti della salute mentale.
L’importanza delle comunità terapeutiche oggi
Ecco, allora, perché parlare di comunità, di psicoterapia residenziale, e del perché parlarne oggi. In un tempo di crisi, economica, storica, esistenziale, emotiva, un tempo definito liquido e ipermoderno, e dominato da un imperversante individualismo, la comunit(ariet)à assume sempre più forte la possibilità/rischio (gli inglesi parlerebbero di chance) di acquisire istanze morali, anche questo un tema trattato ampliamente dagli Autori e gestito con quella flessibilità che caratterizza il Redancia System, nella ricerca di un equilibrio adeguato tra la cura implicita del vivere la dimensione comunitaria e le terapie specialistiche offerte dalla moderna psichiatria.
Infine, viviamo in tempi di crisi economica, una crisi così imponente da aver drenato gran parte delle risorse ed energie dal sistema sanitario tutto. Oggi, ci ricordano gli Autori, fare comunità è più difficile di ieri. In un clima sociale sempre più saturo di tensioni latenti e di intolleranza verso la diversità, si assiste sempre più spesso a insofferenza o flebili borbottii laddove si nomini la rivoluzione portata dal movimento dell’antipsichiatria e la chiusura degli Ospedali Psichiatrici.
Il nostro è un tempo difficile, che richiede a tutti di pensare al futuro partendo da un presente che vive di poche risorse e di molti conflitti, e la strada per farlo è quella di ricordare il nostro passato, volgersi ad esso costruttivamente, proseguendo poi nell’avanzare. Il lettore, nelle pagine di questo volume, rivivrà molta della storia delle comunità terapeutiche in Italia. L’approccio degli Autori, attento alle storie di singoli individui, delle comunità terapeutiche e del gruppo Redancia, appare così efficace e contemporanea nel senso più consistente del termine, ovvero una contemporaneità che sfrutta la sensibilità di oggi per restituire significato ed importanza a ciò che è stato. Il testo, che assume carattere di rilevanza per ogni professionista della salute mentale, diviene imprescindibile per chiunque si occupi di comunità terapeutiche.
L’arte come metafora
Negli stessi giorni in cui rifletto su come impostare la prefazione a questo libro, a Venezia s’inaugura la 56ª Biennale Internazionale dell’Arte, che apre le porte dei suoi Giardini a migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo. Tra le numerose opere esposte, colpisce l’installazione del Padiglione finanziato dal paese del Sol Levante, opera di Chiharu Shiota.
Sebbene il mio sforzo descrittivo, non avendo una competenza specialistica nell’ambito dell’arte contemporanea, non renderà ragione alla sua bellezza/valore, un tentativo lo ritengo necessario, in considerazione delle riflessioni che mi ha suscitato e che mi accingo ad esporvi. L’opera titola
The key in the hand: si tratta di due stanze bianche, dai cui soffitti si diramano migliaia e migliaia di fili rossi intersecati l’un l’altro, come una ragnatela che non si può pensare di dipanare, quanto piuttosto solo accettarne-ammirarne la complessità. A dare “peso” e soprattutto “volume” alla tela troviamo innumerevoli chiavi, di diverse fattezze e peso, che pendono “come pensieri”, emergendo ex vacuo. Non solo, in entrambe le stanze filamenti rossi e chiavi avvolgono, sostenendole, due semplici barche di legno. Queste ultime, imponenti nella cornice di un ambiente statico ed immacolato, imprimono all’atmosfera un senso dinamico di direzione. Indicano una strada.
Ora, ci si potrebbe a ragione interrogare su cosa abbia a che fare tale opera d’arte con un libro che, almeno in apparenza, ci racconta di altro, fondamentalmente di storia e di metodo, o meglio, al plurale, di storie e di metodi.
I racconti delle persone del Gruppo Redancia
Quelli descritti e offerti al lettore sono racconti di operatori e di ospiti, di persone, che in diversa misura e ruolo hanno contribuito, coralmente, a dar vita al Gruppo Redancia.
Lo sguardo e l’ammirazione per il lavoro di Shiota, curiosamente parallelo alla lettura del libro, a mio avviso, ha facilitato in me l’emergere di semplici e forti analogie, dotate di una valenza metaforica, descrittiva di un elemento nucleare di un libro che, come dicevo poc’anzi, racconta soprattutto di – citando Fabio Veglia – storie di vita.
La storia della vita comunitaria, in fondo, altro non è che un intreccio policromatico, inaspettato e per lo più inestricabile di una gruppalità che si configura quasi sempre come allargata. Oltre all’hic et nunc di una singola comunità, gli Autori pongono nel testo un’attenzione centrale alla storia di un esperimento comunitario corale, alla sua evoluzione in esperienza concreta, come si leggerà conquistata nonostante gli inevitabili ostacoli ma anche (e soprattutto) in virtù di intensi entusiasmi.
È una storia che percorre decenni, numerose comunità, centinaia di operatori, migliaia di ospiti. Una tela come quella presentata dall’artista giapponese, che assume volume e consistenza grazie al peso specifico fornito dalle chiavi. Il lettore è infatti inserito dagli Autori in una posizione privilegiata, fornito com’è di una comoda prospettiva su queste chiavi che “pendono” dal libro, ovvero quell’insieme di metodologie di lavoro, di storie e di esperienza degli operatori, in breve di strumenti. Chiavi come strumenti di lavoro intesi nella loro accezione più ampia, da quelli generali (psicoterapie individuali, psicofarmacologia, tecniche di riabilitazione ecc.) a strumenti personali (esperienze particolari, storicizzate nel percorso di singoli operatori e nelle loro – uniche – relazioni con le persone ospiti).
La collettività delle comunità terapeutiche
Terzo elemento, le navi. Al lettore viene suggestivamente ricordato che il termine Redancia deriva dal lessico della vita di mare, trattandosi di un oggetto di uso comune atto a proteggere le cime dall’usura. Le navi, quindi, come complesso sistema di trasporto, e, come nel lavoro di Shiota, anche qui il sistema sembra imprimere una direzione, oltre al trasportare un certo numero di ospiti. Il sistema “di trasporto” di cui si parla, un “Io-Gruppo Curante” più volte citato dagli Autori e che ritengo meglio si adatti a un “sistema” di collettività più che ad un gruppo tout-court, prende nome di Redancia System, che come il lettore potrà verificare ha assunto nel tempo una sua propria consistenza, metodologia, capienza e direzionalità. Come quelle barche cui l’esperienza dona un valore aggiunto situato tra la garanzia e la memoria.
Concludo citando Franca Ongaro, nella sua prefazione a “Che cos’è la psichiatria?” di Franco Basaglia, la quale ci ricorda che raramente un disturbato psichico ha bisogno di un letto d’ospedale. Ciò di cui necessita è un luogo protetto, anche una casa, con un’alta concentrazione di assistenza, di capacità professionale e umana, di accettazione del conflitto che ogni soggetto produce, ma dove la vita penetri, i rapporti circolino, gli stimoli si rinnovino. O, in altre parole, ci si aspetta che esperienze vitali come quella della Redancia e la lettura di questo utile libro si trasformino, per molti, nell’attingere a nuove chiavi e direzioni, che come nuovi pensieri siano strumento di consistenza in un’esperienza gruppale di guarigione e di crescita.