Vaso di Pandora

Per un istante o per sempre il doppio gioco della felicità

Osservazioni della Redazione su:

Per un istante o per sempre il doppio gioco della felicità di Marc Augè

Difficile aggiungere qualcosa alle osservazioni, pur presentate in riassunto, di un personaggio  autorevole come Marc Augè. Forse si può osservare che la “felicità” di Don Giovanni è tinta fin dall’inizio da un presagio di tragedia, colto da Mozart nella forte e drammatica ouverture del suo Don Giovanni.

 Del resto già il creatore di questa figura, Tirso de Molina, presenta la sua fine tragica ad opera del convitato di pietra,  padre di una delle sedotte che, ucciso da Don Giovanni, ritorna come fantasma indistruttibile. Uno psicanalista potrebbe ravvisarvi  un figura paterna superegoica introiettata e quindi non eliminabile: Massimo Recalcati in qualche modo ne depreca la scomparsa.
Si è sempre cercato di trovare forme di felicità meno periture. Ad esempio, il FAUST di Goethe può esser considerato come un’opera sulla ricerca della felicità, programmaticamente  annunziata fin dall’inizio dell’opera. Dopo tante traversie, erotiche e no, se ne raggiunge almeno una precognizione nella conclusione, nelle ultime parole di Faust;
“Uno stagno ai piedi della montagna m’infetta colle sue esalazioni gli acquisti già fatti; l’asciugarlo è per me un affare del massimo interesse. Io apro uno spazio per miriadi d’uomini che verranno ad abitarlo, se non rassicurati con certezza che non ammette dubbio, almeno colla speranza di goderci la libera attività dell’esistenza. Dalle verdeggianti e feconde campagne, uomini e greggi vengano a bell’agio sul nuovo terreno e stanzino luogo la collina dove formicola una popolazione ardita ed industriosa. Nel centro c’è qui un paradiso. Imperversi pure il tempestoso flutto là fuori fino alla riva: ma se gli saltasse il ticchio di rompere violentemente gli argini, allora la folla si precipita per rinforzarli. Sì, io mi sento votato a quest’idea, ultimo fine di ogni saggezza. È solo degno della libertà e della vita colui che sa conquistare ogni giorno. Così in mezzo ai pericoli che lo circondano, qui il fanciullo, l’uomo ed il vegliardo vedano passare bravamente i loro anni. Oh! perché non mi è
concesso di vedere una simile attività, di vivere in terra libera, in mezzo ad un popolo libero! Allora non tarderei ad esclamare: Sii lenta a scorrere, o vita, bella come ti mostri! La traccia
della mia giornata terrestre non può essere inghiottita dall’Eunoè.  Nel presentimento di una simile e sublime felicità, io assaporo ora la gioia”.
La promessa di felicità o almeno di una gioia non effimera sta dunque nell’operare, nel creare, nel dare ordine al caos del mondo. Goethe ha mantenuto questa visione anche nella sua vita, quando pur in età avanzata non ammetteva lo si distraesse dal suo lavoro creativo.
E’ chiaro che questa impostazione ha una connotazione etica non lontana da quella proposta da Platone, che definiva felici coloro che posseggono bontà e bellezza: bontà intesa come virtù, volontà e capacità di adempiere ai propri compiti. Reciprocamente, in epoche a noi più vicine, la felicità diviene un possibile fondamento della morale: per Bentham è morale ciò che garantisce la massima felicità possibile al maggior numero possibile di persone, e a ciò si ispira la Costituzione americana affermando che la buona azione di governo deve consentire la ricerca della felicità. Questo aspetto sociale è ben presente in Goethe: “Io apro uno spazio per miriadi di uomini che verranno ad abitarlo”.
Forse anche noi psichiatri aspiriamo a risanare stagni malsani, e quando ci riusciamo ne ricaviamo un piacere che, osando un po’, potremmo perfino chiamare felicità.
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