Vaso di Pandora

Paul A. Soukup S.I.: Teologia e comunicazione – Il pensiero di W.J.Ong.

Paul A. Soukup S.I.:  Teologia e comunicazione – Il pensiero di W.J.Ong.

Sta in: La Civiltà Cattolica, 309, 4/5/13, pp. 223 -237.
Recensione di P. Pisseri

La comunicazione è tema centrale per chi si occupa della cura della mente, e questo articolo non può non interessarlo, offrendo occasione per un incontro – confronto fra psicologia e teologia.

Ma esso pone problemi di metodo e merito di non piccolo impatto.

E’ vero che le scienze umane trasformano l’immagine di sè che l’uomo si costruisce, e che percependo il mondo diversamente essi modificano i loro atteggiamenti all’interno delle religioni in cui sono stati educati; ma è anche vero che il credente pone dei limiti precisi al confronto fra  il pensiero teologico e le dottrine  psicologiche, poichè non riconosce loro il diritto di valutare la fede nel trascendente e l’atteggiamento religioso individuale: se lo riconoscesse ammetterebbe una sorta di gerarchia teorica, ponendo  la psicologia a un livello conoscitivo superiore a quello del pensiero teologico, tale da autorizzarla infine a collocare il concetto di Dio nell’area dell’immaginario: riedizione onnipotente e immortale della figura  paterna, luogo di una supposta  infinita perfezione fantasticato con procedimento scissionale in qualche modo utile all’economia psichica, costruzione mentale idonea a garantire un ordine etico (se Dio non esiste, tutto è lecito, scriveva Dostoevskij).

Complesso e delicato dunque il compito che si è posto Walter Jackson Ong, uomo di chiesa statunitense che nella sua riflessione è partito dal confronto  della retorica classica con le moderne tecniche comunicative. Ma è partito da lontano, traendo qualche spunto dal pensiero di  Peter Ramus, pensatore francese del 16° secolo di credo calvinista – tanto da trovare la morte nella notte di S. Bartolomeo – che aveva sottoposto a critica la logica aristotelica ed è tuttora considerato da taluno  precursore del moderno razionalismo.

L’aspetto più  immediato del  discorso di Jong riguarda il modo in cui il messaggio teologico può servirsi degli attuali mezzi di comunicazione senza esserne tradito o stravolto.

Ma tale compito non è dei più semplici.  Ong riconosce senza difficoltà che “l’attività intellettuale di una cultura e la sua attività teologica sono correlate; stili nell’arte e stili in politica sono correlati, e così via, sebbene non dobbiamo qui immaginare la correlazione come una corrispondenza biunivoca. Possiamo supporre che anche lo stato del pensiero teologico e i modi di comunicazione in una determinata cultura, in un determinato tempo, siano in qualche modo correlati… Il retroterra culturale e le pratiche di comunicazione di un’epoca non sempre hanno senso in un’altra epoca”.

Si tratta, credo, di un caso particolare di quello che è sempre stato un problema del pensiero cristiano e dei compiti della gerarchia: il confronto fra irrinunciabili verità eterne e il mutevole contesto storico – culturale.  

L’Autore ricorda poi che la retorica classica forniva un curriculum completo per gli studiosi antichi e medioevali, con la sue cinque divisioni, rivolte: a cercare conoscenza o argomento (inventio); a disporli nel modo più efficace (dispositio) a integrarli con le esigenze di un particolare uditorio (elocutio); a conservarli assieme alla conoscenza che essi contengono (memoria); e a esprimerli pubblicamente (pronuntiatio). Nulla da invidiare alla complessità delle attuali tecniche di comunicazione e informazione studiate e applicate nei mass media.

Il Cristianesimo da sempre è attento alla comunicazione; ricordiamo l’inizio del Vangelo di Giovanni, quello di maggiore spessore teologico, “In principio era la parola.  La parola era con Dio, e la parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei…” Concetto ripreso, fra gli altri, da Agostino: “Tu parlasti e le cose furono create; tu con la parola le creasti…” E’, fra parentesi, quell’Agostino che chi è impegnato nella cura della mente sente ancora vicino, per le sue grandi pagine sulla fenomenologia della memoria e per quella child observation che, quindici secoli prima di Freud e Klein, aveva demistificato la pretesa innocenza infantile.

Su un piano più terra terra, l’istituzione ecclesiale ha sempre avuto ben presente la necessità di trasmettere il proprio messaggio con tramiti verbali ma anche  non verbali, quali le opere pittoriche che arricchiscono le nostre chiese; da notare che oggi questa dimensione visiva e non verbale riguadagna spazio, con il cinema e soprattutto con la TV, in cui sappiamo quanto spazio abbia la comunicazione di temi religiosi ed ecclesiali. Importante anche il controllo censorio della comunicazione: la Chiesa non di rado ha  moderato, contenuto e se necessario represso gli apporti che tendevano a modificare il proprio messaggio, a volte infine accogliendoli come quello Francescano e a volte respingendoli quali eresie, come la quasi contemporanea setta degli Apostolici.

Legata a questo aspetto la dialettica fra la concezione –largamente prevalente – che ritiene la Rivelazione ormai conclusa e suscettibile soltanto di interpretazione ed esegesi, e quella che pensa possa ulteriormente arricchirsi di messaggi soprannaturali trasmessi tramite creature privilegiate. Colpisce, fra l’altro, la correlazione con quella che potremmo considerare una dialettica di genere: mentre da un lato i sacerdoti cattolici sono obbligatoriamente maschi, dall’altro fra i veggenti anche contemporanei o quasi la gran maggioranza è fatta di donne.

Interpretazione, abbiamo detto, e ciò non può non richiamare alla mente il  mestiere dello psichiatra e dello psicologo, fatto anche e forse soprattutto di pazienti decifrazioni: non si può escludere che questa strada aperta da Freud abbia a che fare con le sue radici ebraiche, con una cultura in cui l’interpretazione della Torah grazie all’ermeneutica  proposta dal Talmud ha una parte così importante. Ne ravvisiamo un’eco – questa radicalmente pessimistica – anche nell’ebreo Franz Kafka: “La legge è immutabile, e le varie interpretazioni nascono dalla disperazione di fronte a questa immutabilità”.   

Il Cristianesimo non ha totalmente voltato le spalle a questa metodica:   Ong chiama “pregiudizio testuale” il convincimento di molti che i testi siano semplicemente testi e che gli approcci alla lettura o alla comprensione dei testi siano univoci, mentre  non è così, l’attività ermeneutica è sempre fondamentale. Inoltre osserva che le norme per l’interpretazione della Scrittura formulate dai Padri sono sorprendentemente simili a quelle per l’interpretazione insegnate nelle scuole di retorica. L’inquadramento della argomentazione mostra strutture retoriche. Anche l’abito della argomentazione o della disputa per giungere alla verità mostra quella che Ong definisce una struttura “polemica” o “antagonista”; termini che si applicherebbero bene agli attuali talk show. Torna in mente anche il divertissement di un autore certamente non cristiano, Schopenhauer : “L’arte di ottenere ragione”, che propone la capacità polemica  come volta non alla ricerca di una qualche  verità ma semplicemente all’ambizione di prevalere nella discussione.  

Soukup ricorda poi che  Ong ha trattato – soprattutto nel suo “Orality and Literacy – anche della dialettica fra parola orale e parola scritta, che come sappiamo  ha caratterizzato la creazione e la trasmissione di opere “laiche” quali i poemi omerici; ma anche il formarsi del canone cristiano, che certo non aveva all’inizio quella forma definita e consolidata che ha oggi: i primi  resoconti orali, non identici fra loro, sulla vita, morte e resurrezione di Cristo e dei suoi seguaci  sono stati poi raccolti da diversi autori, in parte noti e in parte no, in  numerosi scritti da cui, dopo complicata e tormentata selezione, sono emersi quei quattro Vangeli e gli Atti degli Apostoli che con le lettere di Paolo e l’Apocalisse costituiscono il Nuovo Testamento. Ciò vale a maggior ragione per l’Antico Testamento, composto da opere risalenti a epoche anteriori.

E’ chiaro che lo scritto è mezzo irrinunciabile per il consolidamento e la trasmissione di una dottrina, ma rispetto al parlato perde quel di più di forza che distingue la comunicazione dalla informazione. Ong vede nella venuta di Cristo anche un modo per dare nuova vita alla parola di Jahvè, cristallizzata da secoli nella Bibbia, e per infonderle un nuovo potenziale comunicativo. In questo senso le parole “Io sono la via, la verità e la vita” (Giovanni, 14,6) non sono ai suoi occhi un semplice artificio retorico: per lui indicano che “la verità piena va oltre, trascende ogni affermazione fatta di proposizioni. .. non è affatto una affermazione ma nient’altro che una persona… Il concetto teologico della Parola implica non un semplice passaggio di informazione ma una comunicazione autentica riguardante l’interiorità della persona.    E’ così che il concetto teologico dell’Incarnazione trasforma la parola della Bibbia nella parola vivente di Dio”.   

Possiamo pensare che è stato proprio questo concetto la forza del Cristianesimo: mentre altri contemporanei culti monoteistici sono dimenticati come quello del Dio Mitra o sono ristretti a minoranze come il Giudaismo (peraltro alieno dal perseguire la propria diffusione), il messaggio cristiano ha mostrato fin dagli inizi una dirompente e persistente penetrazione, e ancora oggi credenti e non credenti devono farci i conti.

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