Commento all’articolo di Marco Belpoliti [La Repubblica del 21/3/18]
L’articolo ripropone la problematicità del concetto di allucinazione, rifacendosi al lavoro dello psicologo Charles Fernyhough. Si evidenziano le esperienze allucinatorie di persone considerate “meglio che normali”. In realtà, non siamo colpiti più di tanto dai nomi di Dickens, Woolf, Beckett, cui se ne potrebbero aggiungere tanti, e bastino quelli di Torquato Tasso e di Horderlin: la creatività artistica (ancor di più quella figurativa) ha da sempre aree di confine, ampiamente esplorate, con i vissuti psicotici che non di rado le aggiungono suggestione e che non sono necessariamente sinonimi di una vera organizzazione psicotica globale e persistente.
Danno invece particolarmente da pensare personaggi come Giovanna d’Arco e Maometto: Giovanna ha “ricevuto”, tramite le sue voci, istruzioni da S. Caterina, e le ha trasmesse al Delfino aiutandolo con grande successo a divenire finalmente Re trionfando degli invasori inglesi e dei nemici interni borgognoni; Maometto ha nientemeno che fondato l’Islam su messaggi dell’Arcangelo Gabriele. Entrambi, dunque, con i piedi ben piantati per terra, capaci di progettazioni realistiche e realizzate, dotati di grandi capacità strategiche, politiche, militari. Naturalmente, si può anche ipotizzare che le loro allucinazioni fossero simulate, in quanto il contesto culturale le rendeva atte ad aumentare, non compromettere, la forza del messaggio; o piuttosto che non si ponesse allora una netta distinzione fra rappresentazione mentale e percezione. Fra l’altro, sono personaggi che ci riportano all’esperienza mistica, che rispetta parametri molto diversi da quelli della scienza: rischierebbe di essere presuntuoso il voler imporre i nostri.
Da quei tempi, molte cose sono cambiate: non sappiamo se a Churchill durante l’ultima guerra qualche messo divino abbia annunziato la vittoria finale e consigliato strategie; in ogni caso, egli non lo avrebbe rivelato, perché l’avrebbero subito mandato in pensione, e neppure l’Arcivescovo di Canterbury avrebbe potuto aiutarlo.
Infatti con l’affermarsi del pensiero razionalista a partire da Bacone e Cartesio, e poi ancor di più con lo svilupparsi della psichiatria l’esperienza allucinatoria è stata completamente squalificata, ritenuta segno certo di grave malattia mentale. Si è dovuto tuttavia riconoscere un ampio alone attorno alla allucinazione tipica: la pseudoallucinazione, dotata di sensorialità attenuata che la pone al confine con il contenuto di pensiero; l’eidetismo, capacità di pensare per immagini riproducenti la realtà esteriore; le allucinazioni ipnagogiche, ai confini con quello stato allucinatorio normale che è il sogno. Tutte esperienze che mai sono state collocate indiscutibilmente nell’ambito della psicopatologia. Sicuramente patologiche invece le allucinosi, peraltro non indicative di disturbo mentale; hanno infatti genesi psicoorganica legata a lesioni periferiche o centrali delle vie uditive o più raramente ottiche o della sensibilità generale, e non sono legate a impostazioni deliranti.
La crisi della psichiatria positivista ha poi portato con sé una diversa e più problematica considerazione del fenomeno allucinatorio. Si sono formati (fa piacere ricordare quelli portati avanti nel Savonese da Marcello Macario) gruppi di “uditori di voci” che già nel termine indicano la volontà di prescindere da giudizi di valore di questa esperienza e da inserimenti in un ambito puramente clinico. Prudentemente, lo stesso DSM V riconosce la possibilità che in certe culture all’esperienza allucinatoria venga attribuito un significato non clinico.
Charles Fernyhough, nel suo lavoro oggetto dell’articolo, connette il problema a quello del linguaggio interno: quello che ci hanno mostrato così efficacemente Virginia Woolf e James Joyce con la tecnica del “flusso di coscienza”, che non si limita a descriverci il nostro interno fluire di pensieri, immagini ed emozioni ma tende a farcelo rivivere direttamente, nei limiti i cui può riuscirci la parola.
Credibilmente, Fernyhough ritiene che noi sperimentiamo una qualche sorta di linguaggio interno, di per sé non sensoriale e collocato appunto nello spazio interno, per almeno un quarto della nostra esistenza. L’allucinazione nascerebbe da una rottura del limite fra mondo interno e realtà esteriore: sempre patologica? Il discorso è aperto.