Vaso di Pandora

L’era del vuoto

Recensione al lbro di vasoGilles Lipovetsky, Luni Editrice, 2013

 Questo testo ricco di icastici collegamenti intreccia prospettive antropologiche, storiche, psicologiche, politiche. Assume in certi tratti toni propriamente nichilistici: parla di un nostro vissuto di vuoto, di desertificazione, della   incomunicabilità e  desolazione interiore di Antonioni; potremmo aggiungere le parole che Fellini mette in bocca al regista di Otto e mezzo: “Non ho niente da dire…ma voglio dirlo lo stesso”. Quando si parla di malessere di vivere viene in mente il “mestiere di vivere” di  Pavese, intriso di profondo malessere.  

    L’A. parte da una modalità di rapporto  che occupa un ampio spazio nel nostro attuale modo di rapportarci: la seduzione.  Ha in larga parte preso il posto della prescrizione autoritaria e prescrittiva, anche se c’è da dire che questi due aspetti non sono necessariamente contrapposti ed escludentisi: basta pensare  al fascino consapevolmente esercitato da Hitler e Mussolini nelle loro allocuzioni pur imperative. Si può essere sedotti anche da chi ci impone una sottomissione; e qui si aprirebbe il capitolo del masochismo, e di non pochi rapporti di coppia. 

  Ma è pur vero che oggi la seduzione è fortemente prevalente, in varie forme: una è l’invito ai consumi, con  una offerta tendenzialmente individualizzata che miri a bersagli differenziati, in quello che l’A. definisce “processo sistematico di personalizzazione”; la stessa individualizzazione è perseguita in altre sedi, ad esempio con programmi personalizzati di lavoro e di studio. Seduzione è anche la ricerca di denominazioni anodine e non offensive , come “non vedenti” o “diversamente abili”. Aggiungerei  la presentazione nella forma più attraente e amichevole possibile di professioni potenzialmente rivestite di temibile autorità: alla TV gli agenti dell’ordine sono simpatici ragazzi e  anziani saggi o invece goffamente divertenti, le donne carabiniere spesso sono strepitosamente attraenti… Tutti profondamente umani, beninteso nella salvaguardia dell’efficacia operativa.

  Un grande regno della seduzione è poi la propaganda politica e particolarmente pre-elettorale: ciò porta a ritenerla componente essenziale della democrazia, presente fin da  quel prototipo ateniese che ci mostra l’Aristofane de “I cavalieri”.

 Paradossalmente,  un eccesso di informazioni  che si sovrappongono e si contraddicono può risultare in un vuoto informativo. Concordo: credo che un concreto esempio visivo ci sia offerto da certe vie di centri cittadini tanto riempite di insegne luminose da rendere  difficile percepire e identificare quella che ci interessa. In politica qualcosa di analogo: il sovrapporsi di proposte, di promesse, di critiche reciproche può sfociare – e lo sta facendo – in una perdita della capacità di scegliere e di decidere che diventa il deprecato crescente astensionismo elettorale. Questo – è ovvio – ha radici più profonde: il sentire che i giochi non si fanno nella cabina elettorale ma nelle stanze del vero potere, quello economico – finanziario (che fra l’altro condiziona le elezioni).    Sul predominio del denaro, Lenin (o Marx?) ebbe a dire che i borghesi sarebbero pronti a comprare la corda con cui verranno impiccati (ciò tuttavia non è accaduto).  

 Questo aspetto non riguarda – è evidente – – i paesi dove le elezioni non si tengono oppure vengono rigorosamente guidate e condizionate. Ciò porta a chiederci se la complessa analisi proposta dall’Autore riguarda il mondo intero o – credo più verosimilmente – quelle sua importante frazione che denominiamo Occidente: principalmente, l’Europa occidentale e il Nord America.  E’ vero che usi, criteri e valori tendono a estendersi dall’Occidente al resto del mondo, sfumando le differenze; con apparente paradosso, ciò accade in una fase storica in cui il primato politico, economico e militare dell’Occidente viene messo sempre più in discussione da grandi potenze emergenti.

  Ma questo non sorprende: ci sono tanti precedenti di fasi storiche in cui una cultura egemone, sofisticata ma un po’ stanca, è stata sopraffatta da “barbari” che tuttavia vi si sono profondamente ispirati, addirittura inserendovisi: “Grecia capta ferum victorem cepit”.   E un po’ di secoli dopo, è toccato a una Roma ormai ben diversa un incontro – confronto con popolazioni germaniche; e all’impero cinese di fronte agli invasori mongoli. Naturalmente, sarebbe catastrofismo pensare che qualcosa del genere stia per accadere; ma ci sono somiglianze strutturali fra le diverse situazioni.

   Propongo un discorso collegato a questo,  quello relativo alle classi sociali; o, se il termine è fuori moda, ai livelli socioeconomici; nonché all’umoristica indifferenza che secondo l’A. informa i nostri attuali atteggiamenti prevalenti. Forse può permettersi di tener la testa dentro l’umoristica e autocritica  indifferenza solo chi ha i piedi ben piantati nella sicurezza di un solido benessere, magari non sfarzoso ma adeguato ai bisogni essenziali?  Proprio come i borghesi newyorchesi del citato Woody Allen? 

   La seduzione ha occupato uno spazio lasciato libero poichè “è scomparso l’ordine arcaico della Legge e del Divieto”, tema non nuovo; la scomparsa del padre è stata più volte esposta a un vasto pubblico anche da Massimo Recalcati.  Pertanto la seduzione non è più libertina come ai tempi di De Sade, non fa più parte di una ricerca di libertà che ormai nessuno ci contesta almeno in teoria:  non ha più nulla di eversivo, ma è strutturalmente parte del nostro modo di essere e rapportarci. Ma è falsa libertà? Di fatto, nelle sue vesti che vanno dalla propaganda elettorale alla pubblicità commerciale riesce a indurci pseudobisogni.  E’ anche in questo senso che l’A. parla di perversione delle democrazie. Tuttavia, ricordo ancora che  pure molti dittatori sono stati innanzi tutto dei grandi seduttori,  pur se in modo tutt’altro che carezzevole. 

  Il prevalere della seduzione ha evidentemente a che fare con quella dell’edonismo, e questo con quello che l’A. chiama culto della singolarità, poiché è ovvio che la ricerca e fruizione del piacere non è uguale per tutti, né lo è l’oggetto del desiderio. Ma l’edonismo deve confrontarsi con altre esigenze crescenti nelle società democratiche: l’efficienza e l’eguaglianza. L’ esigenza di eguaglianza porta a desacralizzazione del potere, che viene privato dei suoi orpelli: per il governante è importante apparire – illusoriamente o meno – come “uno di noi”.

  A questa riduzione di distanza  corrisponde analoga riduzione nel campo dell’arte, e in particolare nella creazione e fruizione dell’opera d’arte, poichè può accadere che il fruitore venga chiamato a farne parte; o comunque l’esperienza estetica è necessariamente condivisa. Può tuttavia esserlo solo in apparenza, poiché temo vi sia spazio per una diffusa – e accuratamente nascosta – perdita di contatto con i valori proposti dall’artista: apprezzarne l’opera, una volta divenuta canonica, talora diventa un “dovere”.

  Un altro aspetto può avere a che fare con la seduzione, o forse avere radici più profonde: si è assistito a un prevalere del vissuto, a una (parziale) eclissi del teorico e concettuale. Ciò ha a che fare col crescente prevalere dell’immaginario segnalato da Gilbert Durand.

  Non può mancare un riferimento alla psicanalisi.  “Sotto l’egida dell’Inconscio e della Repressione, ognuno è rinviato a sé stesso, alla sua nicchia libidica, alla ricerca della sua immagine demistificata, dell’autorità e della verità dell’analista”. Piccole parentesi:  qui Lipovetsky sembra ignorare la dimensione rivolta al collettivo assunta da grandi filoni guidati dall’ottica psicanalitica, che orienta il lavoro con gruppi, istituzioni,  comunità terapeutiche. Altrettanto parziale mi sembra l’altro  rilievo sulla psicanalisi, che “reinserisce la sua prassi in un rigido rituale fondato sulla distanza fra analista e analizzato”, e che “si istituzionalizza in una Associazione internazionale con a capo un Maestro incontrastato che esige la fedeltà a Freud e e ai dogmi …”. questa visione non solo trascura l’incessante ricerca di revisione teorica e di verifica condotta in tanti filoni, sia pure con metodiche non sovrapponibili a quelle delle “scienze dure”; ma ignora importanti movimenti “non ortodossi”, come quello che fa capo a Gaetano Benedetti;  o  quello del pensiero di Lacan, che ovviamente riconosce come maestro solo sé stesso.

     D’altra parte, l’Autore non rinuncia a  valersi di concetti psicanalitici come il Super Io. Afferma, condivisibilmente, che esso si presenta attualmente sotto forma di imperativi di celebrità e di successo da soddisfare ad ogni costo; questi trovano il loro modello nel divismo. Si potrebbe obiettare che questo non è un fenomeno nuovo: nell’antica Roma certi gladiatori particolarmente 

abili diventavano veri e propri divi. E’ tuttavia evidente che il fenomeno raggiunge nei nostri tempi dimensioni cospicue, e si può aggiungere che le nuove forme di comunicazione “social” hanno dato vita a un sottoprodotto del divismo: gli influencer, nuovi divi, e i followers, nuovi seguaci–tifosi il cui numero diviene un indice di successo.

  E’ comunque certamente vero che nel modernismo “ ognuno è rinviato a sé stesso, alla sua nicchia libidica, alla ricerca della sua immagine demistificata”. Ciò si rileva anche e soprattutto nella esplosione dell’arte c.d. di avanguardia, in una scrittura libera da costrizioni e dal codificato, in una ricerca del nuovo, del sorprendente, dello scandalo. Credo valga la  pena di aggiungere che, siccome al mondo nulla è mai veramente nuovo,  torna in mente la notazione estetica di G.B. Marino che nel ‘600 scriveva: “E’ del poeta il fin la meraviglia…chi non sa far stupir torni alla striglia”. E’ una visione e prassi che ha finito col mostrare la corda: la negazione del canone è divenuta essa stessa un po’ un canone.

   La ricerca di libertà individuale tende a renderci liberi perfino da condizionamenti biologici,  come appare nelle attuali proposte di revisione teorica dell’identità di genere ritenuta come fluida e mutevole.

    Una possibile ricerca di canali collaterali – prosegue l’A.trova forse sfogo in una serie di reinvestimenti: nel regionale,  del passato, dello spirituale, nella natura. Ma mi pare che quest’ultimo campo di crescente interesse abbia una motivazione tutt’altro che immaginaria: la consapevolezza della finitezza del globo che ci ospita. L’ecologia  invoca fra l’altro piccole aziende autogestite: fa tornare in mente Gandhi che suggeriva qualcosa di analogo, mirando però a una meta specifica: l’acquisizione di una indipendenza del suo paese non solo politica ma anche economica.

  L’attenzione all’individuo porta a un crescente bisogno di esibire affetti. Ciò non è cosa nuova: tale bisogno certo era represso in certi ambiti culturali come quello anglosassone, ma ben rappresentato in altre culture fra cui la nostra: basta ricordare le prefiche, “professioniste” di tale esibizione. Tuttavia, al tempo nostro questo bisogno assume forme nuove alimentate dai mass media, come in certi programmi trash TV. 

   La cultura ordinaria che definiamo modernista investe sul  piacere e sul sesso; ma non è detto che ciò significhi liberazione. La provocazione e la trasgressione sono divenuti obbligatori: ecco un nuovo super-io.  Ricordo che il preveggente Aldous Huxley nel suo “Brave new world”  immaginava, 90 anni fa, la definitiva e obbligatoria separazione fra incontro sessuale e riproduzione: in tale contesto, la parola “mamma” diventava una parolaccia francamente pornografica.

  E’ imperativo, almeno negli ambienti sociali che si ritengono più qualificati e “cool”, anche il dettame della moda, pur molto labile e legato alla obsolescenza: aspetto, questo legato all’esigenza del capitale di produrre incessantemente. Ma è proprio nella moda che si rileva l’ambiguità della prescrizione: bisogna aderire a un canone, ma tuttavia “essere sé stessi”, con adeguate variazioni sul tema. Credo quindi sia da considerare con riserva quella che l’A. chiama “estrema diversificazione dei comportamenti e dei gusti”. Mi pare significativo il messaggio che ogni sera appare in TV, elencando una decina di programmi, sottolineando la libertà di scelta e sorvolando sulla sostanziale omogeneità della Weltanschaaung che li fonda.

  Al modernismo – prosegue l’A. – segue il postmodernismo. La spinta al rinnovamento qui si attenua, si addomestica, cessa di essere in qualche modo rivoluzionaria. Il rispetto dei gusti  e delle scelte personali pare ormai acquisito, il conflitto con la tradizione superato;  ma le esigenze di produzione e organizzazione restano preminenti, pur nel rispetto di un maggior polimorfismo ed elasticità. Mi chiedo se si può parlare di  riflusso. Alla ribellione liberatoria segue un diffuso disincanto: tutto è lecito, tutto è possibile, perfino un po’ noioso.

  Una estrema tappa della progressiva perdita di senso è la nuova fisionomia del comico: tema, ricordo,  trattato da Autori che vanno da Bergson a Umberto Eco. Dalla grossolanità della comicità buffonesca medievale si era passati, a partire del diciassettesimo secolo, a forme più depurate e intese alla critica di costume, alla Moliere. Era una comicità seria (contraddizione solo apparente), fustigatrice, e lo era ancora al tempo di Bertolt Brecht. Ora tutto è cambiato: l’umorismo è leggero, rivolto a un sé stesso che non sa più prendersi sul serio: alla Woody Allen. 

  Questi cambiamenti non escludono affatto la presenza della violenza nei rapporti interumani, anche se le sua modalità sono mutate nei millenni e perfino nei decenni. 

 Nelle società che definiamo primitive, è presente il costume della “vendetta”: l’obbligo di reagire a un torto con una adeguata rivalsa, anche mortale. Non si tratta di una risposta individuale egoistica su base emotiva, ma di un obbligo sociale che mette in gioco l’onore personale: aveva una precisa funzione  al servizio dell’equilibrio, della sopravvivenza dell’ordine sociale e persino del cosmo stesso: ad una azione perturbatrice doveva seguire una reazione che ristabilisse l’ordine turbato. Questa funzione verrà poi trasmessa allo Stato, insieme alla connessa sanzione: è sopravvissuta minoritaria in certe subculture come quella mafiosa o in ambiti territoriali circoscritti come la “vendetta corsa”, che oggi ha finito con l’indicare soltanto il nome di un suo strumento: un coltello. 

   La risposta dello Stato si è modificata e articolata nel tempo: in un primo tempo, ha avuto il carattere di quello che l’A. chiama “regime della barbarie”, caratterizzata fra l’altro con lo “splendore dei supplizi  – come lo chiama Foucault – che imponeva con pubbliche esecuzioni e torture l’onnipotenza e implacabilità del Potere. 

   Segue poi la c.d. civilizzazione: le sanguinose esecuzioni vengono messe fuori gioco da un cambiamento che l’A. presenta come antropologicamente e diffusamente fondamentale: la crescente centralità della persona individuale, che impera anche in questo sviluppo civile: “il ritiro in sé stessi, la privatizzazione della vita, lungi dal soffocare l’identificazione con l’altro, la stimolano”. In effetti, di fronte a una pratica crudele ognuno può oggi chiedersi: “se capitasse a me di esserne vittima?”  Sarebbe questa una potente molla di movimenti collettivi e tuttavia non necessariamente maggioritari,  quali il pacifismo, il rispetto delle minoranze e del diverso,  anche il garantismo per l’accusato di reati pur gravi. Alcune proposte, come il vegeterianismo e la condanna della caccia,  chiedono ugual rispetto per  vite non umane.  

  Ma l’individualismo avrebbe anche un’altra faccia: i reati di sangue non diminuiscono, e se ne delinea anzi una particolare fascia, specie nelle giovani generazioni: delitti commessi quasi casualmente, con agghiacciante indifferenza e freddezza. Prevarrebbe dunque anche qui il vuoto annunciato nel  titolo, l’indifferenza “cool”: termine che dall’originario significato di “freddo, indifferente” si è esteso a indicare “alla moda, di tendenza, giusto, adeguato, da approvare”.  Potrebbe portare acqua al mulino di quest’opera che si propone, ambiziosamente, di offrire una visione antropologica unificante una vasta congerie di aspetti propri del nostro modo di vivere.       

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