Il convegno intitolato vecchi e nuovi scenari ha voluto sottolineare come nella popolazione siano cambiati i bisogni di base, tra quelli che erano e quelli che sono/saranno, l’utenza, l’età, le comorbilità e le conoscenze dei cittadini.
Con questa premessa si ha la necessità di trovare luoghi più ADEGUATI per gli utenti: più posti a bassa e media intensità e meno posti ad alta intensità.
Parlando di Residenzialità non si può non far riferimento alla comunità terapeutica intesa nel suo complesso come “un sistema strutturato nella quotidianità che coinvolge e responsabilizza attivamente sia gli ospiti sia le figure professionali appartenenti” (Thomas Main).
La comunità terapeutica vista come un sistema aperto al sociale orientato all’emancipazione, all’autonomia e al reinserimento sociale del residente, basata essenzialmente su due fattori terapeutici: il senso di appartenenza e la responsabilizzazione.
All’interno della comunità si creano sia delle esperienze di interazione e condivisione di atti della vita che nascono dalle attività di mantenimento e di sopravvivenza dando una grande potenzialità trasformativa alla quotidianità sia degli aspetti di vulnerabilità e di crisi che sono necessari per il processo comunitario ai quali si può far fronte con strumenti come la supervisione, le consulenze, lo psicodramma, gli workshop esperienziali, gli interventi di crisi e il visiting.
In riferimento al titolo del convegno la residenzialità: vecchi e nuovi scenari viene naturale cogliere alcune criticità nate nel corso degli ultimi anni come la chiusura degli opg, gli esordi delle fasce giovanili, la gestione degli anziani, i cambiamenti socio-economici e le risorse dei cittadini che necessitano di risposte/proposte.
A questo proposito il Piano Nazionale di Azioni per la Salute Mentale (PANSM), approvato dalla Conferenza Stato Regioni nella seduta del 24 gennaio 2013 e successivamente sancito dall’Accordo Stato-Regioni del 2017, prevede, tra i propri obiettivi, di affrontare la tematica della residenzialità psichiatrica, proponendo specifiche azioni mirate a differenziare l’offerta di residenzialità per livelli di intensità riabilitativa e assistenziale al fine di migliorare i trattamenti e ridurre le disomogeneità.
Questo documento richiede, in primo luogo, il superamento della consuetudine della autorizzazione “passiva” all’ingresso in struttura, che deve essere invece basato su un processo attivo di presa in carico, con la definizione di un Piano di Trattamento Individuale (PTI) il quale include la sottoscrizione di un “accordo/impegno di cura” tra Dipartimento di Salute Mentale (DSM) e utente e il possibile coinvolgimento della rete sociale.
Sulla base del PTI, l’equipe della struttura residenziale, in accordo con il Centro di Salute Mentale (CSM), deve declinare il percorso clinico-assistenziale in struttura di ciascun utente. L’inserimento in struttura deve, inoltre, favorire la continuità terapeutica e prevedere la presenza di un operatore di riferimento del CSM con funzione di case manager.
Il documento sottolinea anche l’esigenza di differenziazione e specializzazione delle strutture per condizioni specifiche, quali: i trattamenti all’esordio, i trattamenti nella fascia di età di transizione tra adolescenza e prima etàadulta, i trattamenti dei disturbi di personalità, quelli per i disturbi del comportamento alimentare, i programmi per i soggetti affetti da disturbo psichiatrico afferenti al circuito penale.
Concludendo, a mio parere la residenzialità dovrebbe essere considerata sia come una parte essenziale del percorso riabilitativo sia come un punto di partenza/una nascita dell’ospite, non dimenticando mai che la società in cui viviamo non è statica bensì un flusso in continua evoluzione/trasformazione e che le problematiche e le criticità collegate alla residenzialità psichiatrica saranno sempre presenti e starà a noi coglierle e saper proporre soluzioni adatte.
Penso che dovremo riflettere su interventi tempestivi e sulla capacità di cogliere il bisogno reale del nostro paziente .
Parlare di residenza non ha senso se non per il riferimento a quella emotiva.
Il modello e lo stile di intervento per pazienti gravi e gravosi deve essere sorretto da preparazione, sensibilità, lavoro di gruppo.
Mi piace quanto scrivi soprattutto se pongo un occhio alle nuove modalità di tecnica dell’ intervento. Si sente nell’aria un cambiamento, anche noi siamo attraversati da pazienti giovanissimi , da pazienti extraeuropei o con problemi di libertà vigilata o con problemi di abuso di sostanze ed è facile accorgersi della necessità di un diverso rapporto con il “quotidiano” che a mio parere rimane sempre la chiave di volta, il cuore pulsante delle C.T e questo lo noto soprattutto nel rapporto sincronico diretto individuale dove non c’è rete che possa certificare risultati, dove si è parte attiva e costruente in atto, nessuna esperienza tutela dalle acuzie pungenti delle emozioni con cui occorre saperci fare più che sapere come si fa .Ogni teoria garantisce solo la metà del lavoro poi intervengono le qualità dell’esserci e occorre aver le idee molto chiare su come e dove si va a parare con se stessi solo così si è veramente terapeutici nel gruppo , cioè occorre studiare molto, non trascurare nulla dei segnali che giungono dalla C.T. Ti scrivo perché di pari passo allo scorrere degli scenari talvolta non occorre tanto modificare, ri-articolare tutto spingendosi verso futuri più complessi , intricati bisogna distinguere tra le reali esigenze di integrazione e la semplice necessità di cambiare noi , modificarsi rispetto al narcisismo beante della routine tecnica che come la comodità è sempre dietro all’angolo. Potremmo dire così un paziente diviene cronico nel momento in cui l’Operatore non ha più idee …e non occorre sempre fare una struttura Ad hoc.