Molte cose mi attraversano mentre leggo il libro di Paolo Milone, L’arte di legare le
persone, Einaudi 2021.
È la prima volta che trovo descritte le storie più intime che ho vissuto in 35 anni di
psichiatria. E le trovo raccontate bene, con una narrazione raffinata, fluida, sorprendente. È
bravo Milone a tenere il ritmo e l’attenzione del lettore, lo impegna con la poesia e lo
sostiene con il racconto breve. Lo seguo volentieri tra i vicoli e le storie che odorano di
Fabrizio De Andre’. Mi porta, metà spettatore e metà attore, a rivivere domiciliari, 118, tso,
caffè, madri, cani, gatti, puzze terribili, macerie, fallimenti, guarigioni fenomenali. Devo
interrompere ogni tanto per quanto è forte il deja vu. E devo interrompere, anche per
pensare. Perché sedotto dalle storie, dai glicini, dalle emozioni, rischio di fare mio tutto che
gli corrisponde. Bravo, riflessivo, sornione, appassionato, guarda sempre e solo sé stesso,
riduce con la sua penna-bisturi la psichiatria a processo, dove chi cerca di capire e trovare
un senso nella psicosi pare un illuso, se va bene, un cretino o un ideologo, se va di lusso.
Ma certo che l’invidia mi riguarda. Milone ha l’arte dalla sua, io no. Milone è cazzuto e
coraggioso, anche quando si fa scappare i pazienti, io sempre dubbioso, pronto a
contraddirmi e cambiare idea. Milone piace agli infermieri che “risolvono problemi”, io mi
metto in ascolto, scelgo la cautela all’assalto. Lui può sentenziare in versi e affascinati lo
ascoltano, e forse lo credono, migliaia di lettori. È un pioniere, un nuovo Tobino che riesce a
dare luce ad una psichiatria buia, fatta di categorie, i suoi euforici, depressi, schizofrenici,
fatta di farmaci, resi eroici dai colori, la consistenza, le somministrazioni, fatta di fascette di
contenzione che si contrappongono all’abbandono dei pazienti. Tutto diventa luminoso,
poetico, seducente. Ma a chi cerca le risposte insieme ai suoi pazienti, senza pensare già di
averle, fa paura. Nella sua ultima paginetta, un po’ legenda, un po’ epilogo, un po’
giustificazione, vedo un autore interessante, con cui farei volentieri un giro in bicicletta, e
che forse, se avessi avuto la sfortuna di dovere condividere con lui il lavoro in un spdc,
avrei perfino finito per amare. Proprio per questo, ancora di più, la psichiatria secondo
Milone mi fa paura.
Non leggerò il libro di Milone
Non ne ho mai avuto la curiosità è spero che non lo faccia nessuno sei miei collaboratori
Votebbe dire che qualcosa sono riuscito a trasmettere loro in ordine alla umanità e alla sua traduzione in persone sofferenti che hanno bisogno di comprensione e compassione in senso strettamente letterale
Pubblico invece con piacere il fine è intelligente commento di Federico che ha avuto il coraggio di leggerlo e addirittura di acquistarlo
Una ottima critica
Complimenti
Un fine affondo su una mancanza di ‘etica’ in psichiatria
Oltre qualsiasi abilità il signor Milone abbia. Come scrittore come descrittore come fotografo
Credo farò a meno di comprare il libro, di cui comunque apprezzo la coraggiosa provocatorietà del titolo. Stimola la mia vetusta generazione, che ha vissuto le prospettive di cui parla Milone e certune ancor più arcaiche: la prima formazione in una Clinica delle malattie nervose e mentali, con la psichiatria in posizione ancillare e pronta a riconoscere implicitamente o esplicitamente una supremazia metodologica, pratica, istituzionale alla Neurologia (con la maiuscola); poi il manicomio con quel che segue; i nuovi servizi, SPDC e/o Territorio; le Comunità terapeutiche per chi ci ha provato, faticando a tradurre in prassi ciò che era chiaro sul piano teorico.
Abbiamo a che fare con la complessità della vocazione psichiatrica, divisa fra la spinta a controllare difensivamente – perfino con la violenza! – l’irrazionale e il diverso, e il desiderio di comprenderlo; anche se i due bisogni possono mescolarsi. Basta pensare a quanto sia comune la radice delle parole “contenzione” e “contenimento”, che pure esprimono atteggiamenti e prassi ben diverse. Ma non facciamo dello psicologismo …
E di nuovo un commento che mi piace. Solo una osservazione: provocarieta’ del titolo o solamente dentro una dimensione fuori …… vetusta anche io in mezzo a desideri imperativi dogmi posizioni differenti sicuramente mi potevo vaccinare in due modi : stare dentro una relazione con il malato nelle sue situazioni più diverse ( per altro non dovute a me ) o mettermi fuori viverle fuori guardarle con la fascinazione che porta a scrivere ma fermarle come le farfalle più belle od orribili in un contesto da collezione. Insomma l’arte di legare non è provocatoria ma definisce un campo .
E anche io ho legato anche io ho proibito libertà……anche io ho deciso….. non ho scritto un albo ….continuo in una dimensione che mi sembra non sia quella del signor Milone. Ma evidentemente piace. Essere fuori piace credendo di capire.
Lo dico ai lettori che sicuramente ameranno questo libro. ma non sono né i matti ne’ chi li cura. Questo mi preme dire
Se leggete su Pol.it il commento di Peloso capirete come gli opposti si incontrano
E’ vero: ed è un fatto positivo o negativo? Cogliere la multilateralità dei problemi e la ricchezza di sfumature è conoscenza; ma un atteggiamento militante è indispensabile al cambiamento. A Roberta: ringrazio per l’apprezzamento e la precisazione. Non siamo in contraddizione. La provocatorietà è secondaria, viene dopo la scelta di campo e la condisce, decidendo di esprimerla non con prudenza ma anzi buttandola in faccia, anche al di là di quel che si pensa.
Mi permetto di “introdurre un pensiero in questa congiuntura”. Intanto “confesso” di aver letto il libro di MIlone ed è per questo che mi consento di accennarne. Ma non volevo parlare del libro in sé che è stato ormai ampiamente discusso da autorevoli autori nei suoi pregi e nei suoi difetti. Mi soffermo soltanto sui pochi, ma sostanziali commenti letti sopra. Dico “pochi”, ma soltanto perché il tema meriterebbe ben altro approfondimento, ovviamente. Dalle riflessioni scaturite qui le posizioni non mi sembrano poi così distanti pur con tutti i possibili distinguo. Apprezzo come sempre la “cautela filosofica” del prof. Pisseri, il suo discernimento intellettuale, per così dire (spero di non aver male interpretato il suo pensiero) dai quali prendo spunto per proporre questo concetto spero pertinente.
Se inquadriamo la discussione secondo una prospettiva “dialettica” sulla natura della realtà e del comportamento umano, allora sussisterebbe un’imprescindibile interrelazione e unitarietà della realtà. Un concetto molto importante della dialettica e che ci torna buono per la discussione, forse, è quello che ogni tesi contiene anche il suo opposto: – Io assumo che la verità sia paradossale, che ogni saggezza contenga al suo interno le proprie stesse contraddizioni, che le verità stiano fianco a fianco (Goldberg, 1980). In questo senso il pensiero, il comportamento e le emozioni dicotomici ed estremizzati di certi nostri pazienti sono trattati alla stregua di “fallimenti dialettici”. La persona-paziente è letteralmente inibita inesorabilmente, e si dibatte perennemente all’interno di una sorta di “antinomia ontologica”, di contraddizione interiore senza fine, incapace com’è di giungere ad una sintesi. Al contrario, prerogativa del curante sarà quella di progredire seppure con notevolissima difficoltà verso un’integrazione degli opposti (anche personali) sia nella pratica della clinica quotidiana, sia nella teoria e nella sua epistemologia. Spero sia chiaro che il mio non è un invito ad accettare certe aberrazioni di pensiero e di comportamento nemmeno quando sono ammantate dall’«aura professionale» (o considerata tale). Insomma, non sto dicendo che il Prof. Milone è “un compagno che sbaglia” semplicemente, ma nemmeno si può rifiutare il Prof. Milone a priori. Non prima almeno di aver «evidenziato gli aspetti d’«identità», le invarianze tra “Noi” e il suo pensiero, tra “Noi” e il suo modo di esercitare la “professione della cura”, ma al solo fine di rimarcare ancora una volta le nostre reciproche inevitabili e necessarie differenze». Forse è un po’ troppo “filosofico” come approccio, ma per quanto mi riguarda anche uno dei capisaldi che fornisce ancora senso a questo “mestiere di curante”.
Non scomoderei la filosofia anche se le riflessioni sull’essere umano sono quanto mai interessanti.
Si tratta solo di rispetto dell’altro,di comprensione,compassione e condivisione a partire dalla buona educazione e dalla disciplina interna che ogni professionista della salute ( non solo mentale) dovrebbe avere.
Oggi ho incontrato un collega che ha lavorato con Milone molti anni e giura che il libro è bello e non intende enfatizzare la contenzione ma il legame con il paziente.
Mah
Forse se me lo regala lèggerò il libro
Da giovane, in Scuola di specialità, ero rimasto illuminato dalla prerogativa di pensare prima di agire.
Anche ora che giovane non lo sono proprio più mi sembra un concetto che apra a praterie infinite di riflessioni.
Qualche anno più tardi quando si presentò in SPDC un paziente che stava male tanto, imparai anche che a volte il pensare, che deve essere sempre prioritario, deve essere fatto in un baleno e altrettanto in un baleno bisogna agire altrimenti le persone che noi curiamo rischiano. Pensare e ancor di più agire sono l’espressione del nostro prenderci cura, sono un atto di responsabilità che noi ci assumiamo nei confronti di chi cerchiamo di aiutare.
Questa è l’arte di legare le persone, perché ci prendiamo cura di loro.
La contenzione in alcuni casi diventa l’unico intervento veramente di cura della persona.
È un’assunzione completa di responsabilità da parte del medico che deve operare con rispetto, con umanità e con determinazione.
È come strappare via dai binari una persona che sta per essere travolta da un treno, lo facciamo con responsabilità umana, con coraggio ed insieme paura, ma forse in quell’attimo senza dubbi.
È così che si stringono i legami perché sono legami costruiti sul nostro prenderci cura davvero, sull’affetto e anche sulla riconoscenza.
Ho avuto la fortuna di lavorare in SPDC insieme a Milone per 25 anni, ogni legame che si è stretto con i pazienti, con i parenti, con i colleghi sanitari e non, è stato bello, profondo e indelebile.
Questo caro Gianni volevo condividere con te quando ci siamo incontrati mercoledì.
Il libro te lo voglio portare presto di persona perché alla fine ti conosco da ancora più anni di Milone e credo che abbiano ancora tante cose da raccontarci e forse da stringere…
Sinceramente, non mi sembra di aver colto tra le righe del libro uno sperticato elogio della “Contenzione”. Ma qui entrano in gioco non soltanto il giudizio personale sull’estetica dell’opera letteraria, ma anche e soprattutto forse la sensibilità che le pagine del libro fanno risuonare in ciascuno di noi e in misura “diversa”.
Invece mi premeva soffermarmi sulla “Diversità” del Prof. Milone. “Diversità” tale o presunta rispetto alla nostra “diversa” concezione della “cura”. Nostra, cioè di quelli che dibattono in questa sede, quantomeno.
Tuttavia, se “Diversità” di “Milone” sussiste, allora andrebbe “integrata”, andrebbe “unificata” in qualche maniera, semmai. Egli è “Diverso” da me perché esprime idee e una visione del mondo, verosimilmente, diverse dalle mie? Oppure abbiamo soltanto un modo “diverso” di interpretare gli stessi valori? Ma non è che tutte le interpretazioni sono legittime, si capisce. Leggendo il libro, e per quello che mi concerne e dal mio punto di vista, dunque, mi chiedo se il grado di “Diversità” espresso dal Prof. Milone e dai suoi collaboratori sia poi davvero così grande. È davvero così scarso il grado di “unità” cui “questi” è tendenzialmente e potenzialmente portato? Sto parlando del Prof. Milone non in quanto persona o professionista tout court che non mi permetto neanche lontanamente di giudicare, ma come rappresentante simbolico di un certo modo di interpretare la “cura” che posso anche non condividere sotto molti aspetti. Allora, provare ad “integrare” saldamente in una “rete di rapporti funzionali” lui e le sue idee “diverse”, significa disinnescare eventualmente la pericolosità potenziale e il rischio del suo dilagare di un certo “mal interpretato senso della professione di curante” che ancora oggi e con motivazioni svariate si pratica (vagamente) e senza nemmeno avere alla base quelle “idealità” che muovono i pensieri e le azioni del prof Milone, in questo caso; e senza che ci siano talune volte, non dico un’epistemologia (che sarebbe chiedere troppo effettivamente), non dico neanche una certa “poesia” che avrebbe la pretesa di addolcire la “crudezza” di certa prassi, ma nemmeno un’«emergenza» effettiva che la giustifichi. “Integrazione” non significa accettazione delle false ragioni o dei falsi valori altrui, ovviamente. “Integrazione” significa anche fare attenzione a che la più moderna “contenzione chimica” non rischi di sostituire subdolamente e indebitamente quella meccanica in diversi casi, ad esempio. Insomma, attenzione a che il farmaco non diventi semplicemente fine a se stesso. “Integrazione” è per esempio capire finalmente se la “Pericolosità sociale” è un istituto clinico o giudiziario. (Mi sto sforzando di andare sul concreto). Allora, un pensiero “integrato” è ad esempio quello tipico che – tiene conto di molti fatti, di questioni più generali e delle possibili obiezioni che potrebbero essere sollevate -. Quindi, prendere in considerazione ed esaminare fin dove giudichiamo possibile molte o soltanto alcune delle cose di cui si fa “portatore” il Prof. Milone significa eventualmente ridurre il rischio che queste “cose” ci possano sopraffare sul breve periodo laddove dovessero rivelarsi “sconvenienti” o le dovessimo giudicare tali.
– Integrare – l’«ideologia» di “Milone” significa anche attrezzarsi sempre più e sempre meglio per provare a fornire ai pazienti un servizio all’altezza dei tempi e delle necessità dei singoli.
Ed è per questo che penso che “Non c’è da aver paura del Prof. Milone”. Sempre simbolicamente discettando, penso che dovremmo accostarci al libro di “Milone” come ad una sorta di “Compagno segreto”, tutt’al più, per così dire, che ci stimola ad essere sempre un passo avanti a patto però che non lo respingiamo negandolo impropriamente. Non bisogna aver paura dell’«Ombra». È con questa chiave che ho letto il libro in questione. Però forse avete ragione! Troppi simboli, troppe metafore, troppo fumo. Che centra tutto questo con la “concretezza” del nostro lavoro quotidiano? Qui la faccenda rischia davvero di diventare, se non proprio “filosofica”, troppo “letteraria”, di sicuro. Pur tuttavia…
Ringrazio tutti per i commenti che attestano sensibilità al tema che ho voluto proporre. Le mie considerazioni scaturiscono da una sofferta presa d’atto rispetto alla psichiatria raccontata da Milone. Lungi da me cercare una contrapposizione con l’autore. Comprendo la sua posizione e sento la nostalgia della sua separazione. Nessun giudizio quindi verso un operatore che avrà servito lo Stato con coraggio e dedizione e verso uno scrittore che fa il proprio mestiere e lo fa pure bene. Il mio scritto contiene un malessere che la psichiatria di Milone non ha fatto altro che fare risuonare ancora una volta e, questo scherzosamente gli rimprovero, persino nel ristoro del mio letto e nella cabina della mia amata barca.
Della psichiatria che Milone racconta con enfasi e rassegnata passione io non ne posso più. Salvare come l’angelo di Meraviglioso qualcuno sul ponte pronto a buttarsi non è la stessa cosa che contenere a letto un paziente in un ospedale. Facciamolo pure ma ricordiamoci ogni volta che ogni paziente legato è un fallimento della cura. Facciamo fare la relazione terapeutica ad una sostanza chimica perché non abbiamo risorse, testa, capacità, pensiero per stare nella relazione ma non ci raccontiamo per favore che va bene così. Gli operatori sono stanchi, si disinnamorano del loro lavoro. Trattiamo i pazienti come malati quando sappiamo benissimo che soffrono di relazioni malate e noi diveniamo nuove relazioni malate.
La filosofia, la poesia, la letteratura possono dare voce a questa crisi. Che la rappresentino invece con fascinosa attrazione, scusate, ma non mi piace.
Federico Russo, capisco il suo punto di vista e la invito a leggere sulla rivista Poetry Therapy Italia (on line) il contributo di Chiara Pent che ha intitolato “poesia aiuto per la psicoanalisi”. Chiara Pent ha una originale esperienza di psichiatri e di manicomio ..ma non è di questo che parla nel suo racconto. Semplicemente è ricorsa al linguaggio poetico per arrivare a farsi capire da chi intendeva curarla
grazie, lo farò.
Avete scritto tanto e forse, anzi sicuramente il mio commento sarà superfluo, spero non inopportuno. Non conosco l’autore e non ho letto il libro, ma analizzo il titolo. Cavolo mi incuriosisce e la sensazione è benevola. Il Prof Giusto me lo dice sempre, ho difficoltà a lasciar andare, in generale a lasciar correre. E penso di essere brava a saper legare, legare cioè creare una relazione all’interno della quale si crei il presupposto di cura, aiuto, condivisione. Le contenzioni fisiche le ho viste a Udine a Sant’Osvaldo, inutili e giustificate con “così non scivolano dalla sedia” e poi durante un ricovero, rimasi sconvolta, il medico aveva esasperato la reazione e la contenzione era arrivata come una punizione, perfino il poliziotto intervenuto era basito.
È una questione di forma mentis o di formazione e basta! Contenimento emotivo o al massimo un abbraccio!
quando mi prendo cura di una persona “devo sentirla” devo capirla, devo creare desiderio nell’incontro, come la Volpe e il Piccolo Principe, una citazione di Dario Nicora che mi aveva folgorato durante un convegno! È per questo che il paziente non è mai solo paziente e sento l’esigenza anche dopo la dimissione di informarmi come sta andando, rispondo alle telefonate, perché do tranquillamente il mio numero di cellulare… ed è per questo, che dopo venticinque anni continuo a fare questo lavoro. Siamo in questo mondo per fare un cammino insieme e deve essere il migliore possibile!