Vaso di Pandora

La leva psichiatrica del ’93

Durante una riunione che anticipa di poco le festività ci siamo soffermati a ragionare su 109 casi di pazienti con età compresa tra i 25 e i 35 anni. L’organizzazione del nostro Dipartimento di Salute Mentale (ASL Roma1) prevede che i pazienti di età compresa tra i 14 e i 25 anni vengano seguiti da un Centro di Salute Mentale dedicato, definito con un acronimo un po’ infelice PIPSM (Prevenzione e Interventi Precoci Salute Mentale). Di fatto quindi i pazienti giovani che accedono al nostro centro di salute mentale sono quelli dai 25 anni in su. Alcuni provengono dal centro PIPSM al compimento dei 25 anni, altri dal privato e altri infine entrano direttamente nel sistema della Salute Mentale per la prima volta.

In un clima di festività e di emozione, sottostante un vissuto di separazione e perdita per 3 operatori importanti che si sono allontanati dal lavoro (un trasferimento per riavvicinamento a casa, un’aspettativa per motivi di salute, un pensionamento), abbiamo preso atto che nonostante grandi sforzi, grandi opportunità che offriamo, alte competenze professionali, un buon clima nel gruppo di lavoro, molti dei percorsi dedicati a questa fascia di età giovani si interrompono o procedono tra stenti, scarsa aderenza, resistenze e ostilità.

Il giorno precedente, alla fine del gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare, mi ero soffermato nel post-gruppo (l’Ateneo di Jorge Garcia Badaracco) sull’evidenza di una resistenza, inevitabilmente condivisa tra sistema curante, pazienti e familiari. Eravamo infatti al gruppo nove operatori, per l’esattezza 3 strutturati e 6 tirocinanti, di cui due al termine di due anni di tirocinio, molto preparati e costantemente impegnati nella gestione del gruppo. Sul versante patologico avevano partecipato al gruppo solo 10 persone: un padre, due madri, una madre e un fratello, una madre e una paziente, una paziente, una sorella e un paziente.

Un gruppo molto interessante, focalizzato su un caso difficilissimo che sta impegnando il servizio da diversi anni anni, con ripetuti ricoveri in SPDC nei confronti di 2 fratelli costantemente accompagnati da una sorella generosa e sofferente e due genitori molto anziani e squilibrati. Famiglia povera, con alte aspettative sui figli al punto che la sorella è diventata avvocato e i due fratelli sono entrati, dopo una laurea in legge, in Polizia. Il paziente al centro del gruppo partecipa per la terza volta e per la prima volta racconta che, dietro ad una drammatica maschera psicotica, c’é un uomo in carriera, ispettore, appassionato di indagini poliziesche. Il gruppo lavora per associazioni libere e i tirocinanti, anche i più giovani, si impegnano a mostrare le loro parti più imbrigliate nelle personali storie di interdipendenza patologica, da cui con fatica si sono liberati, forse solo in parte, anche grazie alla vocazione professionale.

La mia constatazione nel post-gruppo è stata che con nove operatori avremmo potuto comodamente gestire tre gruppi di psicoanalisi multifamiliare nella stessa mattinata, raggiungendo invece che 10 persone almeno 60-70 persone (i limiti della sala e dell’architettura del servizio purtroppo rivelano i trascorsi ambulatoriali del servizio). Tra questi 60-70 avremmo potuto intercettare famiglie altamente patologiche, quelle che più mettono sotto pressione il servizio, e le storie imbrogliate di molti pazienti giovani e sfortunati, con grandi disagi sociali e situazioni familiari drammatiche.

Inevitabile, durante la riunione del giorno successivo, una mia lunga e accorata dissertazione sulle interdipendenze patologiche che si vengono a creare all’interno dei sistemi curanti. E’ così difficile infatti passare da una psichiatria abituale, che risponde ai bisogni di stabilizzazione della società, dei pazienti e dei familiari stessi, ad una psichiatria del cambiamento, che cerca di scovare le origini della sofferenza in quei nodi transgenerazionali che la psicosi tenta di svelare, e invece stringe sempre di più. Nodi che, in ogni crisi malgestita, vengono bruscamente tagliati, tra denunce, coercizioni, violenza terapeutica o familiare, contribuendo a quella triste condizione di vita che finiamo per definire cronicità.

Nella mia discussione in riunione riporto i dati relativi alla straordinaria ricerca condotta in Lapponia tra il 2003 e il 2005 che ha contribuito a diffondere il dialogo aperto nel mondo. Piuttosto che soffermarmi sul metodo del dialogo aperto ho sottolineato come quella ricerca fosse una straordinaria evidenza della possibilità di ottenere risultati molto diversi e più soddisfacenti utilizzando metodi che, piuttosto che soffermarsi sulla cura di un singolo paziente, fossero in grado di guardare al suo ambiente familiare e sociale nel tentativo di sciogliere quei nodi che la mente aveva intrecciato per salvarsi e che invece invece l’avevano ingabbiata.

Tutti gli interventi degli operatori in riunione andavano a sostegno di queste evidenze, sebbene alcune critiche emergevano chiaramente: ma i pazienti ci chiedono terapie individuali, i familiari non si coinvolgono, dicono che lavorano, che non possono, ci scaricano le loro colpe addosso, e noi finiamo per rispondere ai loro bisogni di cronicità invece che al nostro desiderio di curare e sciogliere i nodi.
Intervengo ancora – a volte sono prolisso, pesante, ripetitivo. Dico che dovremmo smettere di fare sempre quello che ci chiedono i pazienti e i familiari, dovremmo dire con chiarezza quello che pensiamo possa fare loro bene, quello che pensiamo possa cambiare la loro vita. Se ci sono problemi familiari evidenti, e in ogni caso grave puntualmente ci sono, dobbiamo intervenire con delle risposte appropriate. E’ inutile vendere illusioni. Se qualcosa vogliono cambiare devono attivarsi, impegnarsi, devono partecipare al processo di cura. E i pazienti a loro volta sentiranno questo impegno dei loro familiari e modificheranno il loro comportamento tristemente rassegnato alla psicosi.

La riunione è vibrante, vedo che le persone sono attente e pensierose, sono pochi gli operatori con il solito telefono in mano, persi o affaccendati in altre questioni, magari un amante, la chat degli amici, un figlio che ha problemi a scuola, o i conti che non tornano.

Due tirocinanti sono oggi al loro ultimo giorno dopo due anni di tirocinio. Roberto e Matteo sono seduti uno accanto all’altro, provengono dalla stessa scuola di specializzazione, sono casualmente del tutto centrali nel gruppo come se fossero loro i direttori dell’intero sistema che in quel momento sta in riunione plenaria. Uno dei due, Roberto, è del 1993, lo so bene perché alla fine della riunione firmo il suo libretto di tirocinio. Dice, con la sua solita pacatezza e una morbida inflessione partenopea, che tradisce le sue meravigliose origini, che ha scritto qualcosa che avrebbe voglia di leggerci.

Resoconto di fine tirocinio al CSM Boccea (UOC 13) – I cambiamenti, il lavoro in gruppo e il rapporto con i pazienti
(Roberto Vanacore, insieme a Matteo Nicolini – specializzandi in psicoterapia psicoanalitica e analisi della domanda (SPS) 20/12/2023).

Riflettendo sul percorso di due anni svolto in questa UOC, mi rendo conto che il servizio è cambiato molto nel tempo. Sto tentando di guardarne il processo. Io e il mio collega Matteo Nicolini siamo arrivati qui a inizio 2022. Avevamo le mascherine ed il covid ancora alle porte. Il servizio stava riorganizzando il suo funzionamento mentre l’emergenza pian piano passava. In quel periodo sono ritornati anche i tirocinanti, che a quanto ho capito erano diventati rari, se non spariti, durante le ondate pandemiche e i lockdown. Dopo poco tempo mi sono reso conto che l’ambito a cui mi interessava partecipare di più qui non erano i colloqui di psicoterapia in cui desideravo iniziare a sperimentarmi, ma era quello dei gruppi.

Ho partecipato a un gruppo DEC, un gruppo multifamiliare, e al gruppo riunione d’équipe. Li metto insieme perché in tutti questi casi il gruppo sospende la fantasia che il lavoro sia individuale. Molte volte in questi due anni, e in tanti modi, in queste riunioni si è parlato di come lavorare insieme: dalla riorganizzazione delle équipe (fisse o variabili), a quella delle accoglienze (adesso con la presenza dei tirocinanti); dalla gestione del rapporto con i pazienti che spesso chiedono un rapporto individuale anziché pensare al rapporto con l’équipe, ai pazienti orfani (per il pensionamento del medico) che si è proposto di accogliere in un gruppo, e tante altre volte. In queste riunioni si parla di come i pazienti propongano qui un tipo di rapporto che assomiglia ai loro rapporti disfunzionali, i quali li hanno portati a sviluppare sintomi e malattie.

Si parla di come chiedano un rapporto che gli permetta di sentirsi rassicurati, ma che al tempo stesso non permette di elaborare il loro problema, mantenendolo uguale a se stesso. Per come se ne parla, a volte sembra che gli utenti che arrivano qui vedano il CSM come qualcosa di simile a un pronto soccorso delle emozioni e a una famiglia. Qui però l’emergenza non è come un’emorragia, da fermare per non morire e per poter guarire, qui l’emergenza ha a che fare con i rapporti. Qui si può provare a fermare e pensare l’emergenza stessa. In queste riunioni si parla della complessità che comporta lavorare sul rapporto in un servizio del genere, in cui gli utenti spingono costantemente chi ci lavora a colludere con loro.

Colludere nel senso di stare con loro nell’unico gioco a cui pensano di poter giocare, all’unico tipo di relazione in cui pensano di poter stare, proponendola come unica via. In queste riunioni, quindi, ci si incontra regolarmente per pensare quali modi utili di lavorare esistano nel lavoro con i pazienti, alternativi a quelli proposti da loro.

Questo rimanda anche all’importanza di pensare cosa si prova, di fronte alla loro domanda, e come potersi attrezzare in maniera utile. Questa competenza ha a che fare con il setting, che la mia scuola di specializzazione intende non solo come il tempo, il luogo e il modo dell’incontro, ma anche come la competenza organizzativa che serve a istituire l’incontro stesso, e ad analizzare la domanda di chi arriva.

Per questo le riunioni d’équipe non sono un momento che precede l’intervento clinico, ma sono un momento clinico, perché possono permettere di pensare ai vissuti che si provano nel lavoro e organizzarlo di volta in volta. Sentirsi alleggeriti dal lavoro in gruppo non è scontato. Non è scontato che un gruppo terapeutico si pensi come una risorsa, o che questo stesso momento di riunione non sia vissuto come un momento negativo, valutativo.

Con Matteo abbiamo pensato che un aspetto importante di questo tirocinio è averlo fatto insieme. Non solo insieme noi due, ma insieme al servizio. Abbiamo sentito utile lo sforzo di impiegare tempo per confrontarci per arrivare a capire cose che da soli ci erano meno chiare, di capire la nostra posizione dentro dei rapporti, e questo ci ha poi permesso di lavorare meglio insieme.

Questo aspetto è la risorsa con cui la nostra scuola di specializzazione pensa i gruppi, e in questo tirocinio abbiamo avuto occasione di verificarlo nei gruppi a cui abbiamo partecipato qui, e ai gruppi a cui il servizio sta pensando adesso e organizzerà ancora.

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