Sono passati parecchi anni, se non ricordo male era il 1997.
Erano anni in cui il mio lavoro, da psichiatra, e la mia vita, stavano cambiando.
Mi ritrovavo in altro modo dentro i miei pazienti e dentro me stessa. Cambiati.
È in quegli anni che ho conosciuto una piccola signora polacca.
È entrata nella mia vita portata da un amico, di lei da molti anni, mio da alcuni soltanto.
Lei si chiama Wislawa Szymborska, ed è una poetessa, lui, Pietro Marchesani, il suo traduttore italiano.
Wislawa Szymborska aveva vinto il premio Nobel per la poesia nel 1996, suscitando il consueto stupore in Italia, dove la letteratura polacca era pressoché sconosciuta, nonostante 15 anni prima un altro polacco Ceslaw Milosz fosse stato insignito dello stesso ambito premio. Non così altrove, cioè nel resto del mondo dove le sue poesie passavano di traduttore in traduttore, ebraico, svedese, inglese, tedesco.
Dopo l’assegnazione del Nobel, il numero di suoi lettori è cresciuto in maniera straordinaria e oggi, credo, nessuno ignora il suo nome, frasi delle sue poesie attraversano, musica, teatro, cinema, letteratura.
Ma non è della sua fama che ho voglia di parlare, sia perché certamente neanche a lei interessava molto, sia perché è di quello che mi è accaduto leggendola che ho fatto esperienza e forse solo di questo posso dire.
È accaduto che la sua poesia è certo in quella che potrei chiamare la mia anima, ma è soprattutto nella mia mente, circola abbastanza disinvolta tra i miei pensieri, nel modo in cui i miei pensieri si formano e si propongono, come ora, a chi potrebbe ascoltarli.
Perché? Provo a rispondere.
Perché certe incontri, parole, letture, scritture entrano discrete nella nostra vita, senza clamore o frastuono, e sembrano avere uno spazio che non necessita spinte o traslochi, è già lì, pronto, in libera attesa.
Perché la sua scrittura è lieve, e terribilmente acuta, lontana dalla retorica, e vicina alla curiosa ricerca della verità.
“Chiedo scusa a tutti se non so essere ognuno e ognuna / so che finché vivo niente mi giustifica, / perché io stessa mi sono d’ostacolo / non avermene lingua, se prendo in prestito parole patetiche, / e poi fatico per farle sembrare leggere”.
Perché parla della sofferenza senza fronzoli, ma non ha alcuna voglia di piangere.
Perché combatte la stupidità, ma la schiaffeggia con ironia.
“La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.”
Perché parla della morte, ma senza esagerare.
“Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando”.
Perché parla dell’amore, quello felice, ma sa che è un fatto privato, che non piace al pubblico.
“Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come di uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la Terra,
capita, in fondo, di rado.
Chi non conosce l’amore felice
dica pure che non esiste l’amore felice.
Con tale fede gli sarà più facile vivere e morire”.
Perché “alla nascita d’un bimbo
il mondo non è mai pronto”
Purché il parto sia lieve e il bimbo cresca sano.
Possa essere talvolta felice e scavalcare gli abissi.
Che abbia un cuore capace di resistere,
e l’intelletto vigile e lungimirante.
Ma non così lungimirante da vedere il futuro.
Risparmiategli questo dono
o potenze celesti”.
Perché ci sono molte domande, dettagli che girano nelle nostre menti e abbiamo spesso solo voglia di esprimerle e di “guardare le cose da sei lati”.
Perché non mi piace l’invadenza, la prepotenza, la volgarità.
Perché “devo molto a quelli che non amo.
Il sollievo con cui accetto
che siano più vicini a un altro”.
Perché “È ritornato. Non ha detto nulla.
Era chiaro però che aveva avuto un dispiacere.
Si è coricato col vestito.
Ha messo la testa sotto la coperta.
Ha ripiegato le gambe.
È sulla quarantina, ma non in questo momento.
Esiste ma solo quanto nel ventre di sua madre
al di là di sette pelli, al riparo del buio.
Domani terrà una conferenza sull’omeostasi
nella cosmonautica metagalattica.
Per il momento si è raggomitolato, dorme”.
Perché “Preferisco me che vuol bene alla gente
a me che ama l’umanità”.
Preferisco non chiedere per quanto ancora e quando.
Preferisco considerare persino la possibilità
che l’essere abbia una sua ragione”.
Perché mi piace la riservatezza, il rispetto. Con cui leggere, scrivere.
Perché “l’ homo ludens danza, canta, si produce in gesti pieni di significato, assume pose, si acconcia, banchetta e celebra elaborate cerimonie. Non voglio sottovalutare l’importanza di simili passatempi, senza la vita umana scorrerebbe con una monotonia inimmaginabile e forse andrebbe allo sbando. Tuttavia si tratta di azioni di gruppo su cui aleggia, più o meno percettibile, quel certo odore da addestramento militare collettivo. Con un Libro in mano, l’Homo ludens è libero. Almeno nella misura in cui gli è concesso di esserlo. Gli è dato di leggere sia libri intelligenti… sia libri sciocchi… di non leggere sino alla fine… di farsi una risatina dove non è previsto… di soffermarsi su parole che ricorderà tutta la vita”.
Così, in questi, giorni, che è uscita l’edizione italiana della sua biografia, mi sono ritrovata a sfogliarne le pagine, quasi a cercarla tra loro per parlarle, per raccontarci l’un l’altra le nostre vicende, senza raccontarcele, dirci il perché di questa strana “gioia di scrivere” come se
“c’è dunque un mondo
di cui reggo le sorti indipendenti?
Un tempo che lego con catene di segni?
Un esistere che a mio comando è incessante?
La gioia di scrivere.
Il potere di perpetuare.
La vendetta di una mano mortale”.
Così, in questi giorni, con i suoi libri, le sue foto, le sue poesie, tra le mie mani e dentro la mia testa, mi ritrovo a pensare a Pietro, al regalo che mi ha fatto tanto tempo fa, che non è oggi, ad avvicinarmi a questa difficile, facilissima donna, e pensavo al bisogno che abbiamo tutti noi di ringraziare certi nostri incontri.
Pensavo alla sofferenza e alla sua scrittura, e poi alla vicenda della vita e alla sua lettura.
Ricordo che Pietro passava ore difficili, anche notturne, nel cercare la parola giusta, il
giusto suono. Nel tradurre che rendesse ragione, di ciò che leggeva.
Così, tra l’altro, mi è venuta voglia di salutarli, entrambi. Amici.