Vaso di Pandora

La Fattoria Terapeutica

Recensione di Silvia Rivolta al libro La fattoria terapeutica. Interventi di psicoterapia residenziale di Giovanni Giusto

Quel viaggio in auto, oggi, lo ricordo ancora: guidava mio padre, era sera e pioveva. Avevo appena compiuto 16 anni.

Mi chiedevo se non avessi chiesto troppo, mi sembrava che stessimo andando troppo lontano. La paura che succedesse di nuovo qualcosa. Mio padre mi stava accompagnando all’incontro con il mio primo cane. Era un momento molto doloroso per la mia famiglia; un dolore non comunicabile, che non ci aveva avvicinato ma reso soli. Pur condividendo la stessa casa, lo stesso spazio fisico, non c’era nessun incontro. Chiesi un cane e lo trovai o forse lui trovò me. Anacleto, lo chiamai, come il gufo di Mago Merlino del cartone animato della Walt Disney “La Spada nella Roccia”: in quella scelta il bisogno di ritrovarci, come quando da bambini con i miei genitori guardavamo alla Tv il nostro cartone animato preferito, il preferito di tutti. Anacleto era un cane di piccola taglia, uno Yorkshire terrier, ne ricordo la presenza: lui c’era, sempre, ovunque andassi; mi stava accanto tollerando quella distanza e quella solitudine che anche io, oramai, proponevo, impedendomi di essere affettuosa, di stringerlo a me, di accarezzarlo come oggi avrei fatto. Ma sapevo che quello sguardo era su di me. Mi sentivo vista. E accompagnata. Mi commuovo ancora mentre scrivo di noi. È stato accanto a me per tutto il liceo, nel periodo dell’università fino all’incontro con l’uomo che sarebbe poi diventato mio marito.

Un altro ricordo rivive dentro di me, oggi, riguarda l’incontro con Marco. Lo incontrai per la prima volta in reparto qualche anno fa. Aveva assunto metadone e rischiato di morire. In quel momento, aveva poco più di 18 anni. Non ricordo molto di lui in quell’incontro. Non ricordo il suo viso, non ricordo la sua voce. Ma ricordo bene la sua storia. Aveva soltanto 13 anni quando iniziò ad abusare di sostanze, tutto, qualsiasi sostanza riuscisse a trovare. Dai 14 anni fuori e dentro dalle comunità per minori e qualche giorno prima del compimento dei 18 anni un reato ai danni della sorellastra. Da quel momento, per disposizioni di legge, non poteva più avvicinarsi a casa. Ero con il direttore sanitario della comunità quel giorno, ci dissero che Marco era cresciuto con un padre tossicodipendente, non costante nella relazione con lui. L’unico riferimento stabile era la madre ed il suo nuovo compagno. Li incontrammo quel giorno. Li invitammo a vedere la comunità. Ricordo ancora quando lasciai l’ospedale: non prendemmo l’ascensore, nonostante fossimo al quinto piano, usammo le scale. Mi serviva aria, quelle scale sembravano inghiottirmi, spingermi giù. Quella storia, quella disperazione mi aveva lasciato senza aria. Mi domandavo se ci fosse la possibilità di aiutare Marco nella nostra comunità, mi domandavo se potessi sopportare tutto quel dolore e con me il gruppo di lavoro. Qualche settimana dopo Marco venne in comunità con la madre. Lo scrivo perché loro me l’hanno ricordato, ho poco memoria di quell’incontro. Ricordo soltanto la madre, con lo sguardo spaventato nell’incontro con gli altri pazienti, tutti molto più grandi di Marco, con storie di malattie lunghe alle spalle, con sguardi che ne erano la testimonianza. Andarono via. Credo che quel giorno nessuno si incontrò veramente. Marco non entrò.

Marco è tornato. Inaspettatamente, qualche mese fa, l’assistente sociale del suo servizio ci ha chiesto di riconsiderare il caso. Era di nuovo ricoverato, di nuovo in fuga dall’ultima Comunità. Oggi ricordo tutto di quegli incontri e non soltanto perché è trascorso poco tempo. Il primo con la psichiatra e l’assistente sociale e poi di nuovo insieme alla madre e al compagno. Marco era cresciuto in altezza, ma lo sguardo era ancora quello di un bambino alla ricerca di un posto. Pallido, con una scialorrea importante che lo portava ad asciugarsi il viso, la bocca, ma verso la quale Marco si mostrava inaspettatamente, vista l’età, tollerante. Accanto a lui Giorgio, il compagno della madre, che invece non mancava occasione di volersene curare, di quella saliva che scendeva dalla bocca di Marco, che imbrattava i suoi vestiti, il nostro tavolo, le sue mani e di conseguenza le nostre, nel saluto alla fine dell’incontro. Mi sembrava un gesto amorevole quello del patrigno, proposto con delicatezza, forse nel tentativo di restituire dignità a quello che per lui era un giovane uomo. Un rispetto nei confronti di sé stesso, la dignità, che forse Marco non aveva sviluppato, privo di consapevolezza circa il proprio valore. La madre silenziosa. Accanto a Marco. Soltanto una frase:  “è da due anni che vedo le vostre facce!”. Dentro di me mi sono chiesta cosa volesse dire, di quali facce stesse parlando, quali significati in quelle facce. Marco chiedeva poco, soltanto di entrare nella nostra comunità perché ne aveva sentito parlare bene. Chiedeva di poter fare un tatuaggio. Ma non sapeva di cosa. Imprimere la pelle. O forse definire i confini di un corpo e di una psiche indefinita. E in maniera così spaventosamente ingenua ripeteva la lezione: mi hanno detto di dirvi che mi voglio curare. L’unica verità, che abbiamo voluto sottolineare a Marco, era che lui scappava dai luoghi per andare a drogarsi. E perché voleva andare dalla mamma. Quello doveva essere il nostro punto di partenza. Marco ci chiese di salutare Davide, sapeva che era un nostro paziente, si erano conosciuti in reparto, si erano incontrati in diversi ricoveri, nell’ultimo erano stati anche compagni di stanza. Quel saluto ha cambiato le carte in tavola: ciò che fino a quel momento sembrava impossibile, un azzardo, un rischio si è trasformato in una possibilità, una responsabilità da condividere. Davide e Marco si sono salutati e in cucina si sono preparati un caffè. Mentre lo bevevano si sono raccontati dell’ultimo periodo. Davide non era mai riuscito a parlare con noi della comunità se non in termini negativi, un percorso obbligato. Nello scambio con il giovane Marco prendeva vita tutto quello che da mesi stavamo cercando di costruire con lui: questo è un luogo che ti può curare bene. Si può curare di te come ha fatto e sta facendo con me. Devi però volerlo, e impegnarti. Marco tornò in reparto. Per tutta quella giornata, Davide ci chiese quale sarebbe stata la decisione sul giovane amico. Dovevamo prenderlo, ci diceva. Dovevamo farlo entrare. Meritava una possibilità. Per una vita fatta di dolore e di continui spostamenti da una comunità all’altra. Davide ci stava aprendo una possibilità che  fino a quel momento non riuscivamo a sentire, ci stava facendo vedere dai suoi occhi, sentire dal suo vissuto. In maniera del tutto istintiva e nuova, abbiamo deciso che non avremmo potuto decidere se non con l’aiuto dei pazienti, di alcuni di loro, quelli che sarebbero stati più coinvolti e toccati dal quel possibile nuovo compagno di terapia: Davide e Giacomo, un altro giovane paziente della nostra comunità. Era necessario condividere la responsabilità di quel possibile ingresso o rifiuto e non perché noi non volessimo prendercela, ma perché c’era qualcosa che da soli non avremmo mai potuto fare nella cura di Marco. Abbiamo fatto delle riunioni con loro, abbiamo riflettuto sui rischi di quel possibile ingresso, sui cambiamenti nel nostro modo di lavorare che ne se sarebbero derivati: abbiamo scoperto che Giacomo, aveva già conosciuto Marco in una precedente esperienza comunitaria. Marco lo aveva picchiato, gli ho chiesto una sigaretta e lui ha creduto che ci volessi provare con lui e mi ha picchiato. Nonostante questo o proprio per questo, gli si voleva dare una possibilità. Con la richiesta che comunque la comunità avrebbe dovuto difendersi e contenerne la violenza, curare senza farsi distruggere. In accordo con i servizi invianti, con l’ospedale, con i familiari, con il gruppo di lavoro e con i pazienti, Marco ha iniziato a frequentare la nostra comunità: da qualche ora al giorno, un paio di volte la settimana, ora Marco viene da noi quasi ogni giorno, dalla mattina fin dopo cena. Per poi far rientro in Ospedale. Se all’inizio, rimaneva soltanto a guardare, a guardarci, chiedeva del suo amico Davide, lo seguiva, fumava insieme a lui, con il passare dei giorni ha chiesto di fare quello che vedeva fare agli altri: sistemare le lenzuola, apparecchiare la tavola, cucinare. Affiancato dagli operatori della comunità o affiancando lui stesso gli altri pazienti. Ci cercava per mostrarci quello che stava facendo, quello che era riuscito a fare. Puntualmente, mi chiedeva di fare il calendario delle sue visite in comunità definendo gli orari, chiedendo copie da consegnare alla famiglia e all’ospedale. Lo sguardo più vivo. La saliva soltanto nei momenti di coinvolgimento in attività di gruppo. Insieme ai famigliari, la frequenza settimanale al gruppo multifamiliare:  l’assistente sociale che da anni lo segue al servizio, invitata e presente all’ultimo gruppo, non poteva credere che Marco fosse rimasto, con lo sguardo attento e interessato, per tutto il tempo. Penso ora all’ultimo incontro in comunità con Marco. Era venerdì, quella mattina avevamo l’assemblea che riunisce tutti i pazienti e gli operatori presenti. Marco era presente, con lui Davide e tutti gli altri. La condivisione è stata vivace, partecipata: un problema in comunità è diventata l’occasione per confrontarci su norme, regole di convivenza dentro la comunità e fuori. Abbiamo condiviso il concetto di responsabilità individuale e collettiva e dove ognuno di noi si colloca in riferimento al problema che stavamo affrontando. Ci siamo parlati, guardati. Qualcuno si è arrabbiato e si è alzato. Poi è tornato e rimesso a sedere. Per cercare e condividere possibili soluzioni. Al termine, vedo uno scambio di sigarette tra Marco e Davide. Mi fermo. Dico a Marco che nel nostro regolamento non è permesso lo scambio di sigarette e che piuttosto la comunità avrebbe cercato con lui una soluzione, dando per scontato che fosse stato lui ad infrangere le regole. Marco non dice nulla. Davide si scusa, è lui che ha chiesto una sigaretta. Ricordo a Davide dove si trova. Poco dopo Marco ci chiede di parlare. La scusa di fissare i prossimi appuntamenti gli permette di chiedere di comprendere meglio l’accaduto: non capisce perché non può offrire una sigaretta ad un amico, al suo amico. Mi dice che non sarà possibile per lui rispettare quella regola, perché per lui non è possibile dire di no ad un amico, non è possibile rivolgersi agli operatori o invitare il suo amico a farlo. Sembra voler chiudere lo scambio, dice di sé di non capire, di essersi bruciato la testa dalle sostanze. Di non parlare bene come parlano gli altri. Di non capire. Di non avere valore. Riprende a sbavare. Chiamiamo Davide. Gli chiediamo di spiegare a Marco l’accaduto, per quella che era stata la sua comprensione: attraverso le sue parole, comprendiamo come Davide abbia fatto proprio il concetto di relazione esclusiva, significandolo all’interno del rapporto terapeutico con la comunità. Differenziandolo da quello che può significare fuori. Nel mondo esterno. E ci spiega che forse questo significato Marco ancora non lo può comprendere perché non dentro. È il setting che permette di significare quello che accade. Fa delle ipotesi circa il funzionamento di Marco, l’ambiente in cui è cresciuto. Ci dice che Marco, prima, era stato in comunità molto chiuse, con persone violente, aggressive, autori di reato, ambienti in cui la logica carceraria imponeva di offrire sigarette e comunque di non negarle, con l’impossibilità di pensare all’istituzione come possibilità di scambio e comprensione. Sei soltanto uno spione. Parla di Marco e delle sue risposte aggressive come unica possibilità di rispondere alla paura. Di essere aggredito. Marco annuisce. Dice che un paziente della comunità gli fa paura, perché troppo chiuso nel suo mondo. Davide prova a spiegargli che quella chiusura non è da temere. È la sua malattia, ma anche l’unico modo per stare bene. Parla di padri a quel punto Davide, ipotizza e chiede a Marco quali valori gli avesse trasmesso il padre. Ipotizza che le reazioni violente di Marco fossero da inserirsi in una relazione con un padre che gli aveva insegnato che l’affermazione di sé passa dal non farsi mettere i piedi in testa, che bisogna reagire. Imporsi. Anche muovendo le mani. Chiede conferma. Marco a quel punto, interviene, dice che il compagno della madre non gli ha insegnato quello. Dice a Davide che quello non è suo padre. Si scusano ancora dell’accaduto prima di uscire.

Leggere “La Fattoria Terapeutica, interventi di psicoterapia residenziale” del dr. Giusto mi ha messo in  contatto con ricordi ed emozioni che credevo lontane e mi ha permesso di rappresentarmi e risignificare ciò che fa parte del mio presente. Una lettura che mi ha consentito  di vivere internamente quello che inizialmente e concettualmente non riuscivo a rappresentarmi e che sentivo solo come una provocazione: andare oltre la comunità terapeutica. Ora mi è chiaro, che in quell’andare oltre c’è il tentativo di mettere in discussione una proposta di cura che oggi rischia di riproporre modelli statici di intervento. Lo dice bene il dr. Giusto nel primo capitolo: “Quando parlo di statico mi riferisco ad un modo di lavorare in cui la relazione tra ospiti della comunità e curanti si caratterizza per abitudini, con il rischio di snaturare gli interventi terapeutici proposti, che si limitano alla gestione del quotidiano e all’intrattenimento creando delle interdipendenze difficilmente risolvibili. Quindi dei falsi clamorosi”. Il falso.  Rileggevo in questi giorni il testo di Frieda Fromm-Reichmann “Psicoanalisi e Psicoterapia” che riferendosi a Sullivan e alla sua concezione di psichiatria scrive: “….considera la psichiatria come arte e scienza delle relazioni interpersonali: ciò significa che la personalità umana funziona o può essere capita soltanto in funzione dei suoi rapporti reali o di fantasia e attraverso i contatti e lo scambio di una persona con altre”. Rapporti reali o di fantasia, contatti e scambi. Il reale e la fantasia non è il falso. I contatti e gli scambi non sono abitudini, gestioni o intrattenimento. Non possiamo proporre il falso. Non è questo che ci viene chiesto di fare, non ci è stato mai chiesto. Nel libro, la necessità di cui il dr. Giusto parla di tornare alle origini come risposta provocatoria e difensiva a chi propone e promuove il falso, diviene l’opportunità di ripercorrere la storia e l’evoluzione del concetto stesso di comunità, in una riflessione complessa ed articolata che tiene conto dei cambiamenti sociali, dei diversi modi di intendere la malattia mentale, nel tempo e nei diversi spazi. Il discorso si arricchisce quando entrando nei termini delle funzioni che la comunità dovrebbe assolvere, si assume uno sguardo antropologico: anche questo significa andare al di là e non tanto per un superamento dettato dall’esigenza di una modernità fine a se stessa, ma per recuperare il senso profondo di ciò che si sta proponendo. E allora,  se l’antropologia studia l’essere umano, nelle sue accezioni sociali, culturali, morfologiche, psico-evolutive, artistico-espressive, filosofico-religiose, comportamentali e la psicologia la psiche dell’uomo, e cioè i suoi processi mentali e comportamenti in relazione al contesto fisico-culturale, come non possono essere tenute insieme?  La psicologia transculturale sottolinea come la mente dell’individuo sia influenzata dalla cultura di appartenenza nel dare senso agli eventi, così come l’antropologia cognitiva evidenzia il legame tra i prodotti culturali e il funzionamento del cervello umano. Possedere una cultura ed essere dotati di uno psichismo sono due fatti strettamente collegati. (T. Nathan, 1996, “Principi di etnopsicoanalisi”, Torino, Bollati Boringhieri). Cosa accade in una comunità terapeutica se si assume una cultura statica, se si propongono relazioni tra ospiti e curanti caratterizzate da abitudini, dalla logica della gestione e non della cura? Cosa accade alle nostre menti se assumiamo una proposta istituzionale che chiede di rispondere ad una logica produttiva, al fare, a produrre risultati o evidenze senza considerare le implicazioni psichiche sottese? Cosa significa assumere il primato del concreto, dell’apparire rinunciando al legame con il simbolico, con ciò che sta dietro? Penso alla saliva di Marco. Sarebbe come pensare che l’obiettivo più importante sia che Marco impari ad asciugarsi la saliva. Continuerà a non farlo se gli faremo sentire che è l’unica cosa che conta.  E noi continueremo a pensarlo resistente o oppositivo. E continueremo a perdere l’occasione di incontrarlo. Tornare alle origini. E allora mi vengono in mente gli animali, i cani di cui, come scritto, ho esperienza diretta:  l’eccessiva produzione di saliva è un fenomeno del tutto fisiologico nei cani, ma non tutti sbavano. La salivazione può essere eccessiva a fronte di particolari stati d’animo del cane: in presenza di cibo o in uno stato di eccitazione sessuale. Ma può essere anche un sintomo di agitazione: ad esempio, quando l’animale sente troppo caldo o quando ha molta sete. Insomma, i cani sbavano maggiormente quando vivono situazioni di stress. Non mi verrebbe mai in mente di insegnare al mio cane a non sbavare o ad asciugarsi il muso. Ma cercherei di capire cosa sta succedendo: perché Marco saliva? A fronte di una terapia farmacologica che non cambia, perché lo fa in taluni momenti? C’è qualcosa nell’interazione con la nostra comunità che rimanda al cibo, al cibarsi, alla fame, al nutrirsi? C’è qualcosa che lo eccita nella relazione con noi? Un piacere che ancora non riesce a rappresentarsi emotivamente e che gli fa sentire troppo caldo? Questo accostamento, che qualcuno potrà ritenere forzato e anche un po’ provocatorio, mi permette di avvicinarmi alla nascita concettuale della fattoria terapeutica, e torno alle parole del dr. Giusto: ho sentito la necessità di tornare alle origini, alla cultura contadina, al rapporto con la terra e le stagioni, con il sole e con la luna, con gli animali, e di proporla per un confronto sinergico con il modello originale delle comunità terapeutiche e quello a mio avviso sempre attuale del Kibbutz. Cultura contadina, animali, Kibbutz e comunità terapeutica: recuperare il contatto con ciò che sta all’origine,  favorire interazioni affettive mediate e possibili in quanto tali, promuovere una cultura dell’uguaglianza e della condivisione, tutto questo in una comunanza di esperienze e con a disposizione tecniche specifiche (la terapia multifamiliare, i Gruppi Esperienziali Terapeutici, la terapia EMDR, la Terapia Aminiotica, l’arteterapia a mediazione tecnologica), che possano rendere possibili movimenti terapeutici ed evolutivi. Aggiunge il dr. Giusto, la grossa differenza sarà quella che i pazienti ricoverati nella fattoria non dovranno lavorare ma, se vorranno, potranno assistere al lavoro che sarà svolto dagli operatori.  Penso a Marco, che chiede carezze, che chiede di essere accolto in comunità. Rifletto sul suo desiderio di farsi accettare, che gli costa fatica, quella saliva, perché Marco ha anche una parte che vuole mordere, che lo ha fatto, come la sua storia racconta. Gli abbiamo chiesto di frequentarci, di osservare il nostro funzionamento. Ha cercato di fare il bravo. Mi rivedo ora nel mio intervento: mentre mi avvicino, mentre chiedo che cosa stia succedendo tra loro, alla loro interazione, al loro scambio di sigarette. Il tentativo di curarmi di loro, dando loro spazio, dando loro parola, attraverso la valorizzazione del percorso di Davide pensavo potesse creare le basi per un processo imitativo ed identificativo. Siamo solo all’inizio.  E in questo inizio, la proposta relazionale offerta dalla comunità, nel suo vissuto e per la sua storia, condannerebbe Marco alla solitudine, lo costringerebbe a non essere amico di nessuno. Una proposta relazionale troppo evoluta, che non teneva conto dei bisogni compensativi del giovane soddisfatti nella relazione con l’amico più grande Davide. Mi sono domandata che cosa sarebbe accaduto se Marco, alla presenza di un operatore specializzato, avesse assistito al percorso di avvicinamento e risocializzazione di un cane, in passato aggredito, ad un gruppo di suo simili.

Prima di concludere, nel paragrafo dedicato alla comunità terapeutica come entità storica, il dr. Giusto scrive: ogni comunità terapeutica ha una sua storia, che potremmo rappresentarci come la vita di un organismo vivente: quando nasce, la storia è giovane, schematica, se si vuole più ideologica (….). col tempo cambia, sulla base dell’esperienza, e cresce; sempre col tempo matura, e ciò che è, è sempre più legata a ciò che stata. Quello che qui ci interessa è la sua capacità di svilupparsi apprendendo dall’esperienza. La comunità terapeutica si trova ad avere continuamente a che fare con un nuovo che viene sia dal cambiamento delle persone che vi abitano, sia dai cambiamenti continui dell’ambiente culturale di cui fa parte. Dal primo incontro in ospedale con Marco, qualche anno fa, ad oggi siamo cambiati e cresciuti: come persone, come gruppo di lavoro. Un cambiamento reso possibile, tra gli altri, dall’incontro con la psicoanalisi multifamiliare. Aprirsi al nuovo. Ciò che fino ad un momento sembrava impossibile, un azzardo, un rischio si è trasformato in una possibilità, sul nostro tavolo la prima stesura del libro del dr. Giusto.

Credo che come operatori nel campo della salute mentale abbiamo la responsabilità di mantenere e vivo e vivente il rapporto tra ciò che è reale e ciò che è simbolico, tra quello che appare e quello che lo sostanzia. La proposta della fattoria terapeutica si costituisce come conferma, di un gruppo di lavoro, il gruppo Redancia, che continua ad assumersi la responsabilità della propria funzione.

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