Stefano è un architetto, di quasi sessant’anni, ospite di una delle nostre comunità da due. Ha vissuto una vita all’insegna del “non posso fallire”. Il primo in tutto: a scuola, nello sport, nel lavoro.
Poi però il suo corpo lo ha obbligato a fare i conti con i limiti: un grave problema di salute quando ha quarantacinque anni e da quel momento, tutto cambia. Stefano non è più lui. Come se non fosse preparato a pensarsi vulnerabile. E allora, il crollo. E una diagnosi di disturbo bipolare. Un matrimonio che fallisce. Il lavoro che si perde. Si perde tutto.
Stefano ha una madre anziana, oramai. La signora Ginevra, che ha più di ottant’anni. Una donna colta e borghese. Che dal primo giorno, dall’ingresso del figlio in comunità, non ha fatto che riferirsi nostalgicamente ad un tempo che non c’è più. Quando il figlio funzionava.
Un atteggiamento che dentro il gruppo di lavoro muoveva antipatia. Che rischiava di guidare le nostre decisioni circa i contatti tra loro. E Stefano che passava dal volerla tutelare, al chiederci di aiutarlo a prendere le distanze. E noi che ascoltavamo soltanto la seconda richiesta.
Stefano, dalla prima settimana, ha partecipato al gruppo multifamiliare. La madre, no. Non era in grado di collegarsi da remoto ed era troppo affaticata per venire in struttura.
Ma noi eravamo convinti che a loro servisse prendervi parte, insieme. Abbiamo allora proposto alla signora Ginevra che un’operatrice potesse raggiungerla, a casa, collegarla e assisterla durante il gruppo. Lei, inizialmente diffidente, ha poi accettato. Temeva di essere analizzata, giudicata.
Intanto, dentro di me si muoveva dell’altro.
La passione per la scrittura, insieme alla consapevolezza di come la partecipazione ai gruppi di terapia multifamiliare avesse cambiato la narrazione di alcuni momenti della mia vita, mi ha portato a pensarlo come possibilità in comunità.
Creare un laboratorio per scrivere di sé, riflettendo su come gli interventi terapeutici in comunità, rendessero possibili nuove significazioni, nuovi legami, nuove narrazioni.
Stefano nei suoi racconti scriveva solo di se stesso. Delle cose che faceva, dei traguardi che raggiungeva. In maniera autocelebrativa. Al momento della lettura condivisa, il tono era nostalgico e un po’ depresso. E c’era anche della vergogna, come se lui fosse consapevole che per chi lo vedeva seduto a quel tavolo, era difficile immaginarlo in quelle imprese.
Poi c’è stato un gruppo multifamiliare. C’era la mamma di Stefano collegata da casa. Si rifletteva sull’ eredità che le figlie si portano, dalle proprie madri. Per la signora Ginevra si esprimeva in una frase: i figli li devi tenere impegnati, falli lavorare. Racconta che per lei, il pensarsi una buona madre, dipendeva da quanto riuscisse ad ottenere da loro, che loro facessero. E che facessero bene.
E io? Che madre penso di essere? Che modello ho ereditato dalla mia? Cosa sto proponendo a mio figlio? Risonanze. Che mi avvicinano a Ginevra, me la fanno vedere sotto un’altra luce. Mi sento più accogliente ed empatica.
A quel punto, la signora Ginevra ha iniziato a raccontare di lei. Figlia.
Che quando aveva un anno si è ammalata. C’era un’epidemia, in quegli anni, a Napoli. Che chi si è ammalato come lei, in quel periodo, o non ce l’ha fatta o è rimasto invalido. Racconta di come la propria madre, la nonna di Stefano, ha fatto di tutto. Portandola all’estero per cure e riabilitazione. Non si è mai arresa, incoraggiando e sostenendo la figlia a superare tutti i limiti che la malattia stava imponendo. Limiti che la signora Ginevra non hai mai voluto mostrare ai propri figli.
Il crollo di Stefano viene allora visto dal gruppo come un’opportunità. I limiti come qualcosa di cui non vergognarsi o da nascondere, ma come possibilità di incontrarsi emotivamente. Non sul fare.
Piangeva la signora Ginevra, mentre un’altra madre cercava di sollevarla dalla colpa, di rimandarle che la crisi di Stefano non era il suo fallimento. Piangeva, perché lei si sentiva così, di aver sbagliato.
Qualche giorno dopo, al laboratorio di scrittura, Stefano ha scritto un ricordo diverso dai precedenti. Molto diverso.
Dolce, musicale, vivido in grado di rievocare una madre attenda e amorevole. Ricco di riferimenti sensoriali. Come se Stefano si fosse rimesso in contatto con parti di lui che sembravano lontane, sepolte. Morte.
Dopo aver ottenuto da Stefano l’autorizzazione, ve lo riporto.
Dolce consuetudine della domenica mattina nella nostra famiglia anche in inverno, era di recarci sul molo di Mergellina a fare una passeggiata.
Salivamo sulla classica 500 bianca, mia madre al volante, mio padre, mio fratello Davide di un anno più giovane ed io, percorrevamo la collina che abbraccia Posillipo alta fino all’antichissima funicolare di Mergellina.
Avevo meno di 10 anni, i vagoni scendevano giù a precipizio un po’ affascinanti, un po’ impressionanti e poi la magia, lo sbocco improvviso sul lungomare brulicante di famiglie, coppiette, bambini, macchine, moto. Un gran vociare di venditori di lupini, pesce fresco, taralli e tante leccornie…a volte portavo il sughero e gli ami e compravo l’esca viva da baracchetto con papà per 150 lire per pescare sul molo.
E poi le immense brioche con la crema o le ricce o le zeppole di San Gennaro… Davide ed io saltellavamo fra gli scogli rincorrendoci felici e familiarizzando con gli scugnizzi finché dopo un po’ cercavamo smarriti l’abbraccio di mamma e papà. Ma dove sono? Sembravano scomparsi, invece con occhio discreto ma vigile non ci avevano mai perso di vista.
A volte si faceva, in un religioso e estasiato silenzio, il giro fra le barche attraccate nel porticciolo sia quelle a vela che gli yacht. Quanto il tempo, raramente era un po’ troppo freddo o ventoso. Alla fine, si riprendeva la magica funicolare e si andava alla pineta del parco Virgiliano…tanto sia da mare, che dal parco a tavola non si arrivava prima delle 14.00.
Arrivavamo con tanta fame e tanta serenità e tanto senso di calore in famiglia.
Penso che sia una cosa importantissima scrivere di se’ dei propri ricordi, poi leggerli e condividerli nella multifamiliare ma non sono mai riuscita a convincere mio figlio a farlo. Solo una volta aveva scritto qualcosa che poi ha letto e ha fatto leggere, ma erano scritti un po’ astratti e impersonali che dovevano essere spiegati, interpretati e lasciavano spazi di incomprensione. La scrittura aiuta molto a sfogarci e se si mette la data, poi a distanza di tempo, si devono rileggere ed a volte non si riconosce che sono stati scritti proprio da noi stessi perché ora non siamo gli stessi di chi ha scritto. Siamo già altri!