Commento all’articolo di M. Belpoliti apparso su La Repubblica il 17 agosto 2018
Ci parla della importante figura di Ferdinand Deligny, educatore che dagli anni 40 in poi si è occupato dapprima di ragazzi difficili dai comportamenti fortemente trasgressivi quando non paradelinquenziali, focalizzandosi in seguito sull’area dell’autismo, in collaborazione fra l’altro con la prestigiosa avanzatissima clinica La Borde, dove operava Felix Guattari insieme a Deleuze.
La prima parte della sua attività mi dà la gradita occasione di ricordare una paragonabile figura savonese atipica ma importante, scomparsa da pochi anni, che con altre modalità si era impegnata nell’intervento su quella stessa area: Don Giovanni Ghilardi, di cui ho avuto il piacere di essere amico. Certo, figura diversa da Deligny, di cui non ha avuto i collegamenti culturali raffinati. Pur culturalmente e professionalmente preparato, il suo intervento a favore dei minori difficili non ha mai avuto una precisa struttura tecnica, tanto meno sorretta da una riflessione teorica esplicitata, ma una forte pregnanza affettiva: il suo istinto – chiamiamolo così – gli ha consentito di fare raramente passi falsi nel rapporto con i ragazzi che aiutava.
Spesso difficile invece il suo rapporto con le istituzioni e in particolare con il Comune di Savona, cui incombeva il compito istituzionale di intervenire nelle condizioni di grave disagio psicosociale. Scambi di accuse reciproche: contro il Comune, di burocratismo e perfino di omissione di atti di ufficio: contro Don Ghilardi, di una gestione personale e personalizzata non coordinabile né controllabile da parte degli Uffici. Le controversie sono finite addirittura all’attenzione della Magistratura.
Con questa, “l’anarcosalesiano”, così chiamato per la ribellione agli schemi prefissati e alla sua notoria intransigenza e poca capacità di mediare e collaborare, riusciva malgrado tutto a mantenere buoni rapporti. Venivano accettate certe sue mediazioni: quando uno dei suoi protetti era accusato di furto, lo convinceva alla restituzione e di solito otteneva l’archiviazione della denuncia. Gli venivano perdonati perfino certi comportamenti ai limiti della legalità, sempre dettati dalla esigenza di proteggere i suoi minori.
Problemi da gestire: i soliti, spesso nel quadro di condizioni familiari disastrate: estrema povertà, condizioni abitative disagiate, genitori assenti fisicamente o affettivamente, violenti, a volte francamente criminali, alcoolisti … I comportamenti dei ragazzi erano una immagine speculare di ciò: furtarelli, bullismi, violenze varie, fughe, oltraggi e resistenza alla Forza pubblica,abuso di sostanze, conflitti con gli insegnanti che spesso finivano con l’esser demotivati, esasperati e rifiutanti. I feed back negativi ricevuti finivano con lo strutturare nel minore una identità delinquenziale. G a 11 anni diceva: “E’ inutile che vi occupiate di me, tanto lo so che prima o poi finirò dentro: me lo dicono tutti che sono un piccolo delinquente”.
L’impegno personale era a tratti estremo: Giovanni poteva giungere ad accompagnare a scuola un ragazzo renitente, o a lavare i piatti nella casa sede di quella che chiamava Comunità Giovanile. Ce n’erano, per quanto ricordo, due: una per i ragazzi, l’altra per le ragazze. Nulla di istituzionale: libera circolazione, non sistematicità, tutto affidato all’intervento personale ed estemporaneo del Don o di qualche collaboratore volontario. Obbiettivi: soddisfare i bisogni primari, di una casa e del cibo; inserimento scolastico perseguito anche con corsi di sostegno o sostitutivi serali direttamente organizzati; poi tentativi di formazione e inserimento lavorativi; mediazioni, se possibile, con la famiglia di origine quando addirittura non era necessario supplire alla sua assenza o totale inidoneità, non di rado sancita dal Tribunale dei Minori con affidamento etero familiare, anche alla stessa Comunità Giovanile. Difesa dagli incidenti giudiziari, con protezione e insieme invito pressante a riparare.
Venivano curati anche i rapporti con la stampa cittadina, importanti per orientare positivamente una opinione pubblica non di rado allarmata e diffidente.
Sempre precaria la gestione economica. Il solo introito certo era lo stipendio di insegnante del salesiano, che necessariamente proseguiva questa attività retribuita conciliandola come poteva con quella di volontariato che era divenuta il suo scopo di vita. Poi i contributi del Comune, senza che venissero chiaramente definiti come atti di liberalità oppure come adempimenti dovuti. E qualche aiuto da singoli volontari o da Enti, come le Casse di risparmio.
Significative le conclusioni di uno studio commissionato dalla stessa Comunità Giovanile all’Università Bocconi: “il carisma di Don Ghilardi è stato il fattore vincente … i singoli ospiti infatti riconoscono in Don Ghilardi la figura di riferimento che gli mancava. .. era inoltre convinzione che fosse ascoltato là dove si prendevano le decisioni che li riguardavano”.
Questo il valore, e il limite, dell’esperienza, che merita ancora di esser ricordata come importante anche se verosimilmente non ripetibile.