L’ORIZZONTE ANTROPOLOGICO DELLE ESPERIENZE DI SRADICAMENTO
di Eugenio Borgna
[Tratto da “Il Vaso di Pandora” – Vol. VI, n° 3, 1998].
Relazione presentata al Convegno “Psichiatria e immaginazione”, Savona, 28 Ottobre 1995.
Soglia
Qualche premessa al nostro discorso: c’è una psichiatria scientifica, una psichiatria che tace, che vede, che analizza. Dall’altra parte, schematizzando ovviamente, c’è una psichiatria che ascolta, una psichiatria che rinuncia in qualche modo alla “descrizione”.
C’è una psichiatria somatologica che vede, che analizza, che seziona, che dicotomizza, che in sostanza distrugge e disarticola l’unità vivente della personalità, normale o psicotica; e c’è una psichiatria che, al contrario, tenta di unificare quello che apparentemente è così lontano da noi, qualcosa che apparentemente è così frantumato, così anarchico, così privo del “senso”.
La psichiatria si trova dunque in una situazione metodologica camaleontica: il fatto stesso che possano esistere contemporaneamente queste così diverse interpretazioni sulla realtà, o quanto meno sulla genesi, sul modo con cui un’esperienza psicologica psicotica si manifesti e debba essere curata, è se non altro l’espressione dell’esistenza, anche nelle scienze cosiddette “scientifiche”, oltre che nelle scienze “umanistiche”, di un nocciolo di irrazionalità, un nocciolo di metafisica, dove il termine “metafisica” è inteso non in senso aristotelico, tomistico, ma nel senso che la ragione non riesce a risolvere questo nucleo tematico.
Non c’è dunque una sola psichiatria: ha scritto a suo tempo Karl Jaspers che la psichiatria è una semplice scienza pratica; le scienze autentiche, radicali all’interno del discorso della psichiatria sono quella psicopatologica (ed è sempre Jaspers a dirlo) e quella somatologica, sebbene queste due componenti appaiano in qualche modo staccate e sradicate fra loro. Oggi forse più che mai siamo nel pieno sradicamento dell’una dall’altra.
Solo se la psichiatria viene intesa come una disciplina che cerca in qualche modo di conciliare due aspetti: quello somatologico e quello psicopatologico. Così radicalmente estranei l’uno dall’altro nella loro fondazione epistemologica, diventa una psichiatria concreta che può confrontarsi con temi sconfinanti in più direzioni, da una parte verso un discorso sociologico, dall’altra verso un discorso politico ed in fine verso una prospettiva antropologico-culturale.
Queste premesse sono essenziali, credo, per “scegliere” una psichiatria che non riduca il fenomeno psicopatologico, l’esperienza psicotica o quella nevrotica sul piano di una semplice disfunzione organica.
Se la psichiatria si limitasse soltanto a questo assunto non sarebbe più “psichiatria” nel senso etimologico che coglie la profondità semantica del termine, ma diventerebbe una encefaloiatria, una “medicina del cervello” come è stata luminosamente definita a suo tempo da Griesinger.
Non c’è psichiatria dunque che non sia psichiatria sociale, non c’è psichiatria che non tenga conto anche essenzialmente di quelli che sono gli aspetti psicologici e psicopatologici, con i loro confini che si confondono e si articolano reciprocamente; in definitiva, non c’è psichiatria che abbia un senso se non si confronta di volta in volta con la radice psicopatologica dei fenomeni, siano essi fenomeni psicologici o fenomeni patologici della vita psichica; ma una psichiatria definita radicale nelle sue premesse e nei suoi sviluppi deve cercare in seguito di andare al di là di quelle che sono le esperienze psicopatologiche per tentare di cogliere le radici antropologiche dell’esistenza, le strutture portanti dell’esperienza umana che noi a volte riusciamo a intravedere solo attraverso la prospettiva deformata delle esperienze psicotiche, considerate come strutture costitutive della condizione umana.
Occorre allora andare oltre, passare dalla psichiatria alla psicopatologia in quanto ricerca disperata delle realtà psicologiche che costituiscono i modi di essere delle nevrosi e delle psicosi, e del resto anche questo passaggio non sarebbe sufficiente, non è sufficiente, se noi non sentissimo l’esigenza di cogliere cosa si nasconde, cosa c’è di comune a noi che in questo momento siamo fuori dall’esperienza psicotica ed a coloro che invece dell’esperienza psicotica siano in qualche modo prigionieri. Il discorso antropologico, fenomenologico in psichiatria tende in sostanza a superare, nei limiti del possibile, quelle che sono le differenze che pure certamente esistono tra i modi di essere non psicotici e i modi di essere psicotici.
Questa prima distinzione non è comunque esaustiva. Se noi, ad esempio, non operiamo distinzioni all’interno della galassia depressiva, facciamo certo un discorso estremamente chiaro, ma in qualche modo riduttivo, destinato ad esaurirsi sul piano di una semplice assolutizzata eziopatogenesi: un discorso semplificante ed omologante che si traduce inevitabilmente, sul versante terapeutico, in una assolutizzazione del trattamento psicofarmacologico anche per quei casi di depressione che non possono essere trattati esclusivamente con i farmaci, ma che richiedono un approccio integrato ed articolato, psicoterapeutico e farmacoterapeutico.
Le radici antropologiche nell’esperienza di sradicamento
Un discorso psicopatologico che si confronti con fenomeni di dimensioni epocali quali l’emigrazione e l’immigrazione trova la sua radice antropologica nell’esperienza dello sradicamento come struttura costitutiva, portante, talora invisibile, ma essenziale e radicale che sta a fondamento di queste trasmigrazioni da una nazione all’altra, da un continente all’altro.
Se noi pensassimo che fare un discorso psicopatologico significhi solo individuare che cosa ci sia di alterato, di apparentemente alterato nel contesto di funzioni psichiche quali il pensiero, le percezioni, le emozioni, la volontà, la coscienza dell’Io, la personalità, l’intelligenza, se in definitiva la psicopatologia si riducesse ad un processo più o meno rapido di dissezione anatomica o microchirurgica di una vita psichica, considerata nella lontananza astrale di qualcosa che sia completamente estraneo a me o a chiunque, allora ogni confronto, ogni tentativo di allargare il discorso sulle immigrazioni e sulle emigrazioni cogliendone le strutture portanti comuni alla nostra esistenza e all’esistenza degli altri diverrebbe inutile ed infecondo; la psicopatologia si ridurrebbe ad essere una scienza più o meno raffinata, laboratoristica, disinteressandosi a quella che è invece la realtà viva, bruciante, incandescente, precaria, traumatica della relazione. Se vogliamo fare della psicopatologia fenomenologica ed antropologica, dobbiamo dunque essere gli uni in qualche modo coinvolti nel destino, nel fallimento, nella riuscita degli altri.
Solo cioè se il discorso psicopatologico si fonda su quella che è la realtà della psicopatologia relazionale – la quale considera i fenomeni psicopatologici normali o abnormali nella loro genesi e nel loro sviluppo collocandoli all’interno di reti relazionali, di un contesto interpersonale, di una intersoggettività – solo se noi riconosciamo che ogni fenomeno abnormale, ogni fenomeno psicotico si costruisce, nasce e si struttura soprattutto in rapporto a quello che è il contesto interpersonale, il contesto sociale, quello che è il contesto, in senso lato, culturale in cui le persone vivono allora forse possiamo giungere a cogliere punti di contatto significativi, strategie propedeutiche di interpretazione per cercare di avvicinarci, se non altro, alla comprensione di ciò che accade nella coscienza, nella fantasia, nell’agitazione ferita di chi subisca una esperienza di estraneità, di radicamento, di lontananza, di perdita della patria: di questa Heimatlos keit che, nel termine tedesco, ha senza dubbio un’articolazione semantica, una collocazione ancora più drammatica, ancora più intensa di quella che non sia la nostra definizione di “patria”.
I fenomeni psicopatologici possono dunque essere compresi soltanto nella misura in cui si tengano presenti le reti relazionali permanenti, continue, i flussi che mettono in contatto ciascuno di noi con l’altro oltre lo sguardo, al di là dei diversi modi di essere, dei differenti linguaggi, valorizzando l’interiorità e la soggettività di coloro che sono coinvolti in queste reti di rapporti, siano essi medici, infermieri, psicologi o pazienti.
Come si costituiscono i sintomi psicotici quando ciascuno di noi vive un’esperienza radicale, profonda di sradicamento, di perdita delle proprie radici, di lontananza sempre più angosciante, sempre più disperata? Nelle esperienze di sradicamento e di estraneità il mondo perde la sua familiarità, non solo geografica ma soprattutto paesaggistica.
Nel contesto di questo pietrificarsi dell’esperienza del mondo (del modo di viverlo) anche il paesaggio, i contenuti emotivi, emozionali, affettivi che connotano abitualmente una situazione geografica trasformandola in una “Landschaft”, in un ambiente a noi familiare, si inaridiscono nelle loro articolazioni spazio-temporali, si fanno incomprensibili ed inaccessibili sino a giungere alla metamorfosi radicale del mondo.
La barriera del linguaggio e la comunicazione perduta
Non c’è psichiatria senza metafore, ma soprattutto non c’è nemmeno psichiatria senza una riflessione permanente, continua sul linguaggio.
Il linguaggio dello straniero è un linguaggio che separa, che distingue, che fa precipitare ciascuno di noi insieme a coloro che sono stranieri in un vortice, in un abisso, in una condizione depressiva dove ogni speranza sembra perduta, risucchiata dalla vertiginosa concezione del tempo e dello spazio che caratterizza e connota ogni esperienza malinconica: l’essere stranieri, l’essere separati dagli altri anche a causa di un linguaggio che accentua in qualche modo questa tentazione delle barriere, questo precipitarsi e chiudersi dentro barriere che in termini clinici possiamo anche chiamare autistiche, può anche trasformare una esperienza depressiva reattiva e conseguente agli eventi della vita in un’esperienza che sul piano clinico chiamiamo endoreattiva, contrassegnata da una metamorfosi radicale di significati, da un lento scivolare verso uno sradicamento ancora più profondo, da una lacerazione ancora più drammatica: la separazione dalla nostra “patria interiore”.
La perita della patria come radicale esperienza antropologica
Si può essere sradicati dalla patria geografica, ma anche essere anche sradicati dalla patria interiore. Si può essere lontani, dal mondo, dalla città, dal paese in cui si è vissuti ma si può anche essere scalfiti, logorati dalla lontananza interiore quando io divento straniero nella stessa terra in cui sono vissuto.
Il discorso dialettico di una psichiatria che non si riduca ad essere prigioniera di un inutile trionfalismo nosologico e classificatorio, scopre innanzitutto una possibile, se pure insondabile, analogia, una comune radice antropologica nel modo di essere stranieri di tutti coloro che, separati dal linguaggio e dai vissuti, lasciano terre lontanissime segnate da una cultura opposta, quasi inconciliabile con la nostra, e la nostra possibile condizione esistenziale di “stranieri in patria”. Il termine di estraneità, il termine di “Entfremdung” può costituire una struttura di significato che lega insieme, che accomuna attraverso il sigillo dell’estraneità, questa radicale connotazione umana delle nostre vite che segna la perdita della familiarità dei luoghi in cui viviamo, la perdita dei valori conoscitivi in cui siamo immersi.
Essere stranieri, estranei, vivere in un mondo che si fa improvvisamente irriconoscibile è un’esperienza che anche ciascuno di noi potrebbe vivere nel corso della sua esistenza: credo che la possibilità stessa di accettare e di tollerare, di vivere insieme agli immigrati, condividendo il destino e le sofferenze di una vita frantumata, di esistenze ferite come quelle di coloro che abbandonano le terre d’Africa giungendo in Italia, sia legata alla comprensione dell’altro, alla nostra attitudine più o meno ampia, più o meno aperta, più o meno sottile, di superare, di trascendere, di bruciare gli schermi precostituiti dei comportamenti, per intendere invece questi comportamenti alla luce solo dell’interiorità, della soggettività, in relazione ai vissuti, alle esperienze umane, siano esse rappresentate da un’esperienza psicotica oppure da esperienza psico(pato)logiche diverse.
“È l’anima straniera sulla terra”
Come anche Karl Jaspers ha scritto, la psichiatria si impara forse più ancora ascoltando le voci che non leggendo i testi di psichiatria. Certo la psichiatria ha a che fare con le voci anche se queste devono essere ogni volta decifrate, a volte con difficoltà, separandone i significati sovrastrutturali per coglierne l’intima risonanza, l’essenza più profonda.
Una di queste voci, la voce del grande poeta George Trakl ci porta dentro a mondi che trascendono, direi, ogni cultura, ogni articolazione antropologica. Siamo qui a contatto, riusciamo a sfiorare le strutture comuni alle esistenze, alle “Lebenswelt”, ai “mondi della vita”, alle strutture che fanno realmente parte di ogni destino umano, di ogni umana presenza, qualcosa che non può mai essere separato e distrutto.
In una delle sue poesie, Georg Trakl dice: “ È l’anima straniera sulla terra”. Il termine tedesco “fremd…” allude generalmente a “ciò che non è familiare”, “che non attrae”, ciò che piuttosto pesa e inquieta, ma “fremd”, lo straniero, significa propriamente “avanti verso altro luogo”, “in cammino verso… che ci è pre-destinato”, ciò che è straniero va a cercare un luogo dove potrà restare come viandante.
L’intersoggettività come modalità di comprensione della diversità dell’Altro
Il cammino di ciascuno di noi, il cammino di uno straniero che si ammali, di uno straniero che precipiti in un’esperienza psicotica, depressiva o schizofrenica, il cammino di chiunque sia stato colpito, staccato, stralciato dalla comunità viva, dalla produttività e dall’efficienza appare contrassegnato da una condizione di profonda solitudine.
Il linguaggio è essenziale anche perché solo il linguaggio ci aiuta a cogliere alcune strutture portanti essenziali della condizione umana, solo queste “colombe azzurre”, come George Trakl definiva le parole, riescono a scavare attorno a noi e dentro di noi spazi di apertura e spazi di ascolto. Dunque ciò che è straniero va cercando un luogo dove potrà restare come viandante, lo straniero segue la voce, queste voci del mondo.
Ecco, questo essere stranieri significa che, al di là di ogni processo di emigrazione, chi giunge in una terra diversa dalla sua può essere poi direttamente divorato e logorato da questi sentimenti, da queste esperienze, che sono esperienze di lontananza, di sradicamento; il termine mutuato dalla cultura occidentale che connota emblematicamente il sentimento di chiunque si trovi straniero in una terra lontana, è quello di “nostalgia”: nostalgia significa, etimologicamente, “dolore per il ritorno”, un dolore che sigilla e connota l’amore per la patria perduta, questa nostalgia che può essere più o meno profonda, più o meno distruttiva, più o meno divorante.
Essere immersi in sentimenti, emozioni come queste significa quindi trascendere, superare qualunque connotazione rigidamente sociologica, rigidamente psichiatrica, e cogliere invece questo nocciolo antropologico profondo che ci lega tutti insieme in una comunità, in un “sentire comune”, un “con-esserci”, e che trova comunque la sua fondazione filosofica nella struttura portante della intersoggettività.
La decapitazione della speranza nell’esperienza di sradicamento
Il tempo soggettivo è qualcosa di profondamente diverso da quello che è il tempo cronologico, il tempo dell’orologio, della clessidra.
Il tempo soggettivo di chi è straniero in Italia, ma soprattutto di chi si fa straniero perché giunto da terre lontane, è sottoposto ad una metamorfosi profonda, radicale dalla quale la dimensione del futuro appare decapitata, la speranza tende totalmente a chiudersi, ad essere sbarrata e seppellita. Ogni esperienza di sradicamento è un’esperienza segnata da questa metamorfosi profonda del tempo. Il tempo perde la sua dimensione di avvenire, di divenire, perde il suo slancio vitale, si spegne, si inorridisce: di fronte a compagni di strada che giungono in questa terra, occorre saper andare al di là dei loro comportamenti, delle loro articolazioni di vita, occorre cogliere ed accogliere l’altro, confrontarsi con quelle che sono le dimensioni psicologiche comuni ad ogni soggettività, ad ogni interiorità.
Vladimir Nabokov: la nostalgia della “dimora non amata”
Un’ultima considerazione nasce da un testo di chi, costretto ad abbandonare le infinite steppe siberiane, ha vissuto, straniero fino in fondo al di là del linguaggio che poi ha fatto suo, nelle terre molto diverse degli Stati Uniti. Superando il primo, immediato momento di raffinatezza estetizzante che la lettura di questo passo ispira, è possibile collocare queste parole nel contesto di una paradigmatica esperienza umana di separazione, di scissione, di sradicamento, di lontananza, di perdita dei propri confini. Il libro è quello di Vladimir Nabokov intitolato “Il Dono”:
“Ti è mai capitato, lettore, di provare la sottile tristezza della separazione da una dimora non amata? E quale non si spezza come quando salutiamo per sempre gli oggetti a noi cari.
Lo sguardo inamidato non vaga tutto intorno, trattenendo una lacrima come se volesse portare via in essa dal fervorante riverbero del luogo abbandonato, ma, nell’angolo più bello dell’anima troviamo compassione, per le cose che non abbiamo inamidato con la nostra presenza, per le cose che abbiano appena notato e ora lasciamo per sempre.
Solo la vita che si apriva dalla finestra resterà ancora un po’ in noi, come una fotografia ingiallita incastonata in una croce di un signore con il collettino inamidato, la sfumatura alta, gli occhi immobili.
Ti direi addio, stanza casa certo ma anche patria”.
…Questi versi il mio saluto: “…e tuttavia addio.
Non sarà il caso di rinunciare una volta per tutte a qualsiasi nostalgia? A qualsiasi patria, tranne quella che è con me? Dentro di me che si è attaccata come la gente alla sabbia di mare, alle suola delle scarpe che vive negli occhi, nel sangue, che dà spessore e profondità allo sfondo di ogni speranza, un giorno, staccandomi dalle mie carte, guarderò fuori dalla finestra e vedrò l’autunno russo”.