Il 16 e 17 settembre 2016 si sono tenuti presso l’Università degli Studi di Pavia, le giornate di studio sulla figura di Dario De Martis – professore ordinario di Psichiatria a Cagliari nel 1968 e a Pavia dal 1971. A venti anni dalla sua scomparsa amici, colleghi ed ex allievi affezionati ne hanno ricordato la figura umana e l’insegnamento scientifico e clinico profondamente innovativo.
La sua formazione e la sua esperienza professionale includevano non solo la neurologia e la psichiatria, ma anche una completa formazione psicoanalitica, unita a un’eccezionale apertura culturale. Grazie a questo straordinario profilo intellettuale, Dario De Martis fu un pioniere nello studio della condizione psicotica, nella critica agli apparati istituzionali della psichiatria e nell’estensione su larga scala dell’approccio psicoterapeutico alla malattia mentale.
Ricordarlo è anche l’occasione per un fare bilancio attuale di quell’indirizzo psicosociale della psichiatria di cui egli fu un precursore e un sostenitore appassionato e tenace.
In quell’occasione ho avuto modo di porre a Fausto Petrella, a cui mi legano numerosi anni di frequentazione delle sue supervisioni cliniche, alcune domande sulla figura di Dario de Martis. Ho pensato che la forma dell’intervista fosse un modo tanto efficace quanto sintetico per cogliere i valori essenziali della figura di De Martis e come tale la propongo senza commenti ringraziando Fausto Petrella per la sua disponibilità e cortesia.
Tre domande secche a Fausto Petrella
D. Caro Fausto, tu hai chiuso il tuo appassionato intervento al seminario in ricordo di Dario De Martis con la frase: “Dario ci ha insegnato a lottare per la psichiatria!”. Sembra un richiamo che va ben oltre un discorso puramente tecnico.
R. La frase che citi del mio discorso ha un significato esortativo e passionale, ma corrisponde in realtà a precise condizioni e prerequisiti di un lavoro psichiatrico che sia utile, decoroso e rispettoso delle complesse realtà umane di cui la psichiatria si occupa. La riforma psichiatrica italiana è avvenuta essenzialmente come critica sociopolitica al manicomio. L’elemento tecnico non vi ebbe alcun posto, salvo che come critica alle concezioni psichiatriche vigenti e soprattutto al pessimo uso che se n’era fatto nelle istituzioni psichiatriche. I lager per malati di mente sono stati eliminati in base ad argomentazioni essenzialmente etiche. Cosa veramente si dovesse fare con i malati era una questione assolutamente importante, ma tutta da vedere. La nuova situazione creatasi con la nuova legge richiedeva operatori ben intenzionati, non cinici o sprezzanti, psicopatologicamente formati anche su un piano personale e/o in gruppo, capaci di trattare con amministrazioni che ragionano quasi sempre solo in funzione di logiche molto distanti dai bisogni degli ammalati e degli operatori. Un approccio puramente psicologistico o psicobiologico-farmacologico sono insufficienti. Lo stesso contributo psicoanalitico – che Dario come me riteneva fondamentale a vario titolo per la psichiatria – doveva tener conto di questi diversi livelli, interrogandosi sulle finalità del lavoro psichiatrico, sulla babele delle pratiche in cui si sostanzia. C’è qui un aspetto etico, politico e filosofico che non può essere evitato. Lottare per la psichiatria significa sapere che un’azione psichiatrica positiva corrisponde a una società più equa e tollerante, a una socialità più consapevole, qualcosa che si identifica anche con una comprensione singolare e un rispetto per ciascuna persona sana o malata. Le anticipazioni della 180 realizzate da Dario e da me in provincia di Pavia rispondevano a queste complesse esigenze e criteri, che nel corso degli anni hanno trovato più ostacoli che supporti e collaborazione da parte di amministratori cangianti e sostanzialmente ostili o lontani dalle realtà psichiatriche che dovevano amministrare. A livello nazionale la psichiatria italiana non ha saputo accordarsi su criteri e politiche assistenziali adeguate e a partire dagli anni 80 si è assistito a un progressivo impoverimento della conoscenza dei pazienti e della loro sofferenza a favore di trattamenti farmacologici che tagliavano corto con gli aspetti psicologici del lavoro psichiatrico, con forte tendenza a delegare questo aspetto a figure professionalmente non particolarmente formate come può accadere con gli psicologi e i cosiddetti educatori.
D. Quali erano o avrebbero dovuto essere per De Martis e per te i rapporti tra psichiatria, psicoanalisi e ideologia?
R. Per De Martis la psicoanalisi divenne gradualmente un indispensabile strumento della psichiatria, della sua semeiotica, che non poteva che essere relazionale. Solo entro una relazione medico-paziente prendono forma le pretese oggettività dell’osservazione psichiatrica. Gli aspetti negativi dell’esperienza anche infantile del paziente erano elementi esplicativi importanti, che andavano scoperti e valorizzati. La psicoanalisi permette delle forme di valutazione clinica che passano anche attraverso l’osservatore, i suoi atteggiamenti emotivi influenzati dal proprio transfert e dal transfert del paziente. Non si tratta di esercitare nel contesto psichiatrico la cura psicoanalitica-tipo, ma di utilizzare lo sguardo, l’ascolto, l’osservazione della propria relazione col paziente come elementi indispensabili di qualsivoglia approccio clinico. La psicoanalisi permette la formulazione di interrogativi senza i quali la psichiatria diventa facilmente qualcosa di disumano. La risposta alla costituzione di ideologie, intese come forme di considerazione univoca e limitativa della complessità dei fenomeni psicopatologici, deve essere costantemente sottoposta a una critica, con tutti gli strumenti a disposizione. Naturalmente è del massimo interesse il rapporto ideologia/istituzione, con tutti i problemi che comporta, in primis quello del potere.
D. Quale è a tuo avviso il principale risvolto, che il pensiero di De Martis può aver lasciato nella prassi psichiatrica/psicoterapica odierna?
R. L’insieme delle pratiche e delle idee che abbiamo sostenuto e realizzato De Martis e io stesso sono da considerarsi inattuali, poco praticate o addirittura impraticabili senza un adeguato contesto istituzionale e amministrativo e senza un tessuto comune che unifichi culturalmente le varie psichiatrie in atto. Non so se e quando avverrà su larga scala un’attuazione dei criteri di Dario. Assistiamo oggi a un diffuso regresso della componente “umanistica” del nostro lavoro, un regresso diffuso nella qualità dei rapporti umani e nel rispetto della persona. Se dovessi dire con parole mie quale sia il lascito più importante di De Martis, direi: la qualificazione psicoterapeutica di ogni minimo atto della psichiatria; lo psichiatra di fronte allo psicotico deve sapere che questi lo concerne e che si richiede allo psichiatra una capacità di vicinanza insieme accorta e capace di vincere la paura della follia dell’altro e della propria. E questo non è poco.
Per approfondire la riflessione su questa importante figura della psichiatria italiana, ho chiesto poi a Carmelo Conforto, professore presso la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Genova dal 1968 al 2011, docente durante la mia specializzazione in psichiatria, collaboratore e supervisore del gruppo Redancia, di fornirmi alcune sue riflessioni sulla figura di Dario De Martis da lui ben conosciuto in virtù dello stretto rapporto fra le Scuole di Specializzazione in Psichiatria di Pavia e di Genova.
Non posso parlare di Dario De Martis, psichiatra, professore ordinario a Pavia e psicoanalista, senza riferirmi a Franco Giberti, a sua volta psichiatra, professore ordinario e psicoanalista. Entrai a lavorare con lui nel 1965, alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali di Genova (direttore C. Fazio), ove naturalmente il cervello, le sue patologie e le maniere di affrontarle ne costituivano l’identità prevalente.
La psichiatria, allora insegnamento “complementare” (diverrà “fondamentale” nel 1976) stava in quegli anni rinascendo, grazie a Giberti, titolare dell’insegnamento e responsabile dell’attività clinica.
Certamente l’impostazione prevalentemente organicista in Italia, era presente, anche se a Genova con minor pregnanza e caparbietà, credo in ragione della poliforme identità del personale medico neuro-psichiatrico di allora e comunque di una particolare reciproca tolleranza di cui il direttore, Cornelio Fazio, ne era l’espressione evidente.
Giberti, nei suoi modi cauti, sussurrati, assolutamente convincenti, proponeva ai pochi che lavoravano con lui (Rossi, in primis) quel modo d’essere psichiatri che stava allora nascendo e che invitava a incontrarsi con il sintomo proponendone un diverso statuto, ovvero la disponibilità ad affrontarne l’enigma del significato e a rivolgersi ai modi ( la psichiatria che si apre alla psicoanalisi) per tentarne lo svelamento.
La proposta, per alcuni di noi, per me, una sorta di attesa rivelazione, concerneva quindi l’uso del discorso psicoanalitico e la sua introduzione, nella forma di tentativi psicoterapici “senza divano” che si aggiungevano ai programmi della farmacoterapia.
Qui ha per me inizio l’epopea della Psicoterapia e più precisamente della proposta psicoanalitica. Giberti, Rossi sono alla fine degli anni ’60 in formazione psicoanalitica a Milano, in Clinica si parla (di conseguenza) non solo di psicofarmaci ma si invitano fenomenologi come Cargnello, psicoanalisti come Zapparoli e Gaburri, si trattano temi di terapia individuale e di gruppo, che mi motiveranno a intraprendere a mia volta, nel ’70, il lungo training psicoanalitico a Milano.
Perché questo, voglio sottolineare, è un tema fondamentale: annunciare un nuovo modo di proporsi ai pazienti gravi, psicotici, partendo da un faticoso, stremante lavoro su noi psichiatri–psicoanalisti, costituito dal lungo tragitto formativo.
Peraltro già a partire dalla metà degli anni ’60 si era costituita la Società Italiana di Psicoterapia Medica, e il primo Consiglio Direttivo ebbe luogo nel ’66 sotto la direzione del Prof. Dario De Martis. Ad essa aderì Franco Giberti, amico di De Martis e come lui inserito nel percorso universitario e psicoanalitico, e con lui i medici della psichiatria universitaria.
Iniziammo così a partecipare alla vita della SIPM e qui, soprattutto, ebbi modo di conoscere Dario De Martis, direttore della Clinica Psichiatrica di Pavia.
Come Petrella, allora suo aiuto ebbe a dire più volte, si creò una sorta di gemellaggio tra le due psichiatrie e tra i medici psichiatri-psicoanalisti (parlo di Fausto Petrella, Romolo Rossi, e poi via via Barale, Bezoari, io stesso…).
Soprattutto ai Convegni della Società e alle riunioni del consiglio direttivo mi incontrai con De Martis e ne compresi il pensiero e i modi di intendere la psichiatria, non malattia del cervello ma sofferenza psichica della persona.
Psichiatria che non si ferma, come dicevo, al sintomo.
Modo d’essere psichiatra che dispone del riferimento non solo teorico ma vissuto nel training che il modello psicoanalitico offre.
Questo era il modello che animava i Convegni e De Martis ne era uno dei massimi interpreti nei suoi modi saggi, severi, mai trionfalistici.
Avviene che De Martis e la sua équipe propongano il lavoro psichiatrico così inteso entrando nella realtà manicomiale con la struttura universitaria e descrivendo la straordinaria esperienza ne “Il Paese degli Specchi”, ove è mostrato un altro modo di intendere la funzione dello psichiatra.
Il gruppo di Genova risponde, a confermare il gemellaggio con Pavia (come osserva Petrella), con il Manuale di Psichiatria (Giberti-Rossi) ove la psicoterapia e la psicoanalisi trovano spazio e legittimazione.
Risponde anche (siamo nel primo atto della 180), anni ’80, con supervisioni in più strutture territoriali, facendo i conti, specie inizialmente con l’introduzione di un pensiero che era indigesto, non concordante da un lato con l’impronta basagliana e neppure con quella organicista.
Non dimentico, peraltro, l’introduzione della prospettiva analitica nella didattica universitaria, nel lavoro con gli specializzandi: gruppi di tipo esperienziale, supervisioni di gruppo, lavoro con il personale infermieristico.
Attività che, nel loro insieme, contengono certamente ampi riferimenti al pensiero dei colleghi di Pavia, pur conservando da sempre una loro specificità qualificante l’indirizzo della Scuola genovese.
Ho in mente infine ricordando De Martis, un avvenimento per me pieno di significati, il colloquio che ebbi con lui a Pavia nel percorso che mi avrebbe portato a divenire membro ordinario della SPI: amicizia, lunga conoscenza, ma, come espressione del suo modo d’essere, correttamente non disgiunte dalla sua funzione di psicoanalista didatta che vuole valutarmi ed esprimere il suo giudizio.
(fine)
Non ho conosciuto personalmente Dario De Martis, ho della sua persona solo un vago ricordo a un convegno risalente ai primi anni del mio corso di specializzazione. Ricordo però quanto di lui si parlasse all’interno della Scuola di Specializzazione di Psichiatria di Genova e ho constatato negli anni successivi quanto fossero fondamentali per il mio lavoro i suoi contributi.
Colgo l’occasione per ringraziare ancora Carmelo Conforto e Fausto Petrella per la loro disponibilità.
Marco Massa