Commenti della Redazione agli articoli apparsi su La Repubblica il 20 aprile 2019:
Indecisi a tutto. di Giuliano Aluffi
Fare o non fare? È sempre la stessa storia. di Corrado Augias
Tema non nuovo quello della difficoltà di decidere, operazione che mobilita una serie di problematiche insite nel nostro essere nel mondo.
Anche Amleto ce lo ha ricordato, secoli fa. “Decidere” viene dal latino: caedere, concidere, tagliare: quindi decidere è sempre una perdita, una amputazione, una rinunzia alla alternativa scartata. L’angoscia che, poca o tanta, comunque ne nasce può essere fronteggiata svalutando l’alternativa con il primitivo meccanismo della scissione: espressione metaforica questa che ci rimanda a un taglio concreto, materiale, quello espresso dal termine “scindere” o dall’inglese “scissors” (forbici). Un approccio più maturo è il riconoscimento che l’alternativa non scelta ha pure i suoi pregi; e la tolleranza del dolore connesso a questa rinuncia: elaborazione depressiva.
C’è un confine malcerto ed elastico con la psicopatologia. La psichiatria classica aveva creato l’espressione diagnostica “follia del dubbio” riservata a quelle condizioni in cui la difficoltà di scegliere e decidere raggiungeva livelli estremi: oggi le rubrichiamo nel disturbo ossessivo – compulsivo.
La decisione ci introduce, che ne siamo consapevoli o meno, nel cuore del problema della libertà, che può attrarci ma forse ancor più sgomentarci, come ci ha ben mostrato Sartre. Egli nega a tutti noi la comoda via d’uscita costituita dal non scegliere, non agire: il non decidere è di fatto scegliere che le cose vadano per il loro verso, nella direzione da altri tracciata. “Si è responsabili di ciò che non si è saputo evitare… Fossimo anche muti e immobili come pietre, la nostra passività sarebbe comunque una azione… L’uomo è condannato a essere libero… Ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere”.
Centrale il tema nel pensiero di Kierkegaard: “Il divieto divino rende inquieto Adamo perché sveglia in lui la possibilità della libertà. “ E’ costitutiva in noi l’angoscia perché lo è la possibilità, cioè una libertà finita ma reale.
Scegliere e decidere implica responsabilità, portandoci nel problema della colpa e dunque in una dimensione etica. Qui le singole decisioni devono rifarsi a una scelta di base: prevale l’adesione incrollabile a un principio, secondo il kantiano “ fa quel che devi, accada quel che può”? Oppure un approccio pragmatico, fondato sulla previsione delle conseguenze? O una complicata sintesi fra i due momenti?
L’adesione a un’ottica deterministica, al di là della sua teorica legittimità o meno, in qualche modo può dare sollievo, attenuando o abolendo la nostra responsabilità: mi autorizza a pensare che agisco nel solo modo che mi è possibile. Forse questa visione è oggi in qualche modo sostenuta anche dalla ricerca neuroscientifica: se alla base del nostro agire stanno processi biochimici, circuiti neuronici, strutture cellulari, la nostra libertà di scelta potrebbe essere considerata illusoria, perché le molecole non le consideriamo libere. Ma anche ciò fino a un certo punto: Heisenberg ha incrinato perfino nella fisica il concetto di ferrei rapporti fra causa ed effetto, e l’ottica oggi egemone è quelle probabilistica. In ogni caso, il determinismo non ha ampio spazio nella visione del mondo che prevale nella collettività.
Di fatto, nei momenti di crisi l’angoscia può acutizzarsi a livello non individuale ma collettivo, e portarci a rinunziare alla libertà di operare scelte che possono rivelarsi decisive: apre così la via alla dittatura, all’affidarsi all’uomo forte che “ci penserà lui”, ci libera (nell’immaginario) dal peso del dubbio e delle complicazioni, salvo poi essere aggredito e magari giustiziato se delude le attese.
Ma a livello politico il problema è tuttavia complesso, perché non è detto che l’iniziativa puramente individuale, destinata di solito a restare inefficace, consegua la vera libertà: finisce col portare a una sostanziale inazione. La vera libertà sarebbe quella del gruppo. Tema di moda ai nostri tempi, quelli di Gaber: “libertà non è il volo di un moscone… libertà è partecipazione”. Tuttavia, sappiamo come è andata a finire con lo stalinismo, dove la libertà decisionale collettiva è stata di fatto sequestrata da una burocrazia addirittura feroce: dal potere ai Soviet si è passati a quello incontrastato della Segreteria del Partito.
E’ possibile che l’epoca attuale tenda ad accentuare la difficoltà della decisione, come dice Gianna Schelotto citata nell’articolo: la tecnologia attuale ci offre in ogni campo opzioni un tempo ignote, e la rete di prescrizioni e divieti che ci conteneva si è molto allentata, ampliando lo spazio della scelta. E al tempo stesso molte cose sono meno garantite, in primo luogo il tranquillo godimento del nostro benessere: la spinta migratoria in corso ci inquieta non solo come novità intrusiva ma anche mettendoci di fronte a scelte etiche difficili, cariche di complicati risvolti. Tutti motivi di insicurezza.
Libertà di decidere può dunque essere un fardello pesante, ma siamo tenuti a portarlo: la comoda scelta del “chiamarsi fuori” solo in apparenza ci solleva da una responsabilità, che di fatto rimane intatta. Questo, non solo in politica ma a ogni livello. Sartre è ancora attuale.