Immagini tra passato, presente e (?) futuro
Luigi Ferrannini
“Non ci posso credere!”.
Qualche tempo fa La Repubblica pubblicava un Editoriale di Adriano Sofri a commento di una delle tante vicende incredibili del nostro paese, il cui titolo mi aveva colpito. In esso infatti si coniugano e si intrecciano due posizioni e due stati d’animo: il “non ci posso credere” riferito alla speranza che la notizia sia falsa o per lo meno distorta; il secondo riferito ad una posizione emotivo-intellettiva che si traduce in “non voglio/posso crederci”, quasi a rifiutare e rimuovere una realtà invadente, oppressiva, intollerabile.
Ecco come ho reagito alla notizia dei maltrattamenti – peraltro ampiamente documentati dopo numerose indagini – su pazienti ricoverati/ospiti (questi eventi ci segnalano anche l’ambiguità dei nostri termini), di una struttura residenziale sanitaria. E questo indipendentemente dalla tipologia (anziani, disabili, pazienti psichiatrici, altro ancora…), perché anche queste sono differenze poco significative e categorie spesso commiste, soprattutto quando si parla di dignità della persona, sana o malata.
Ma allora, abbiamo sbagliato tutto?
Il processo legislativo, culturale, tecnico-scientifico ed organizzativo avviato con/dalla Legge 180/78 e portato avanti in oltre trentacinque anni di storia del nostro paese e dei nostri servizi dobbiamo dichiararlo sostanzialmente fallito? Abbiamo costituito nel mondo un modello nella lotta alla istituzionalizzazione – e nello sviluppo dei conseguenti processi di deistituzionalizzazione e di costruzione dei servizi di psichiatria di comunità – ed ora ci ritroviamo a chiudere gli occhi, per non vedere ciò che ci inquieta od a vederlo solo quando i media e la magistratura ci costringono?
Le immagini di Quarto e di Cogoleto – per restare in famiglia – e quelle di Vado (ma anche di Borea e di Reppia di Né, se pensiamo solo alle ultime vicende, ma temiamo che potrebbero non essere le ultime… ) rimandano alla iconografia classica delle “immagini della follia” e della sua gestione (trattamento? cura?…concetti nobili…), come se l’effetto contagio non finisce e non si estingue mai. Essere matti, sofferenti, disabili, anziani fragili rischia di essere sempre di più – in un quadro culturale e semantico semplificato e che ha paura del rapporto con la complessità, anche quella della malattia e della persona sofferente – una colpa della persona (e/o della sua famiglia), ed in questo senso più da punire che da curare. Quanta enfasi sul concetto di “care” e di “cure” si sfalda di fronte a queste immagini, dure, cattive e vere al tempo stesso. “Non posso non crederci!”, direbbe Sofri.
In una cultura dominante che accetta e legittima l’intollerabile, mentre esclude il tollerabile e tutto quello che va accolto e gestito, l’immagine sostanzia il comportamento (non sappiamo quanto sorretto da una scelta consapevole o da un mero agito evacuativo) e la persona/attore sembra non capire quello che fa e non dare spazio a sentimenti per lo meno di vergogna, a maggior ragione trattandosi di operatori sanitari, la cui scelta professionale dovrebbe far pensare alla dimensione dell’aiuto alle persone fragili e malate.
Ma allora non è cambiato niente? Le strutture residenziali, comunque denominate (CT, RSA, RP, CAUP, Case di Riposo…che termine paradossale, alla luce di questi eventi!), restano sempre istituzioni totali, nella cultura e nelle tecniche della violenza, della segregazione e del silenziamento ed il percorso dalla deistituzionalizzazione alla reinstituzionalizzazione si è compiuto, ancora una volta.
Il paradigma della follia – applicabile comunque a patologie e persone differenti, quando “deragliano” nei pensieri e nei comportamenti e diventano “casi difficili” – rimanda sempre a dimensioni cristallizzate: follia ed “altro-da-me”, follia e violenza, follia e corpo, follia e disordine, follia e solitudine, follia e paura, follia e controllo, follia e repressione (non dimentichiamo le pratiche eugenetiche tuttora presenti in alcuni paesi del mondo) ed alle pratiche ed alle tecniche per gestire questa complessità.
Il rischio è che si affermi quella che Papa Francesco in un recente messaggio ha definito “la cultura dello scarto”. «Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione , ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”». (Esort.ap. Evangelii gaudium, 53)
Le recenti vicende, sulle quali occorre riflettere con grande attenzione etica, prima ancora che tecnica, rimandano comunque alla necessità di affrontare il tema dei luoghi di cura in modo strettamente interconnesso a quello della cura dei luoghi.
Ed allora, lo sguardo per fortuna si allarga e sappiamo – e quindi “ci possiamo credere”- che non tutto sia così.
Abbiamo luoghi di cura aperti – anche al cambiamento delle persone sofferenti e degli operatori -, centrati sulla cultura dei diritti dei pazienti/ospiti e dei loro famigliari, attenti all’ascolto, alla relazione, alla dimensione empatica, al contatto (anche corporeo) rassicurante e contenitivo – anche per prevenire gli agiti, e senza ricorrere a strumenti coercitivi -, al rispetto della persona, della sua dignità e dei suoi diritti, certo “diritti fragili” come li definisce Luisella Battaglia, ma che proprio per questo vanno sostenuti e promossi con azioni forti e continuative.
Luoghi in cui si mettono in atto trattamenti integrati fondati sulle evidenze e declinati sul singolo paziente, in un quadro di appropriatezza non astratta, di promozione dell’effectiveness piuttosto che dell’efficacy, di personalizzazione delle cure. E questo dal trattamento farmacologico, al trattamento psicoterapico alla messa in atto di programmi individualizzati di riabilitazione psicosociale.
Luoghi in cui si mantiene uno stretto contatto con i committenti (famigliari ma soprattutto servizi pubblici invianti, che mantengono e condividono responsabilità di cura e di verifica dei programmi di trattamento e delle condizioni degli ospiti), attraverso la stipula di un vero “contratto di cura” che riguarda tutti i soggetti in campo. Insomma luoghi di cura in sintonia con i nuovi obbiettivi della psichiatria di comunità e dei suoi nuovi obbiettivi: evidence-based, patient-oriented, integrated, collaborative, stepped, balanced, gender-oriented, ma soprattutto parteciped e recovery-focused.
Abbiamo luoghi di cura in cui gli operatori sono professionalmente preparati ma anche motivati, e questa preparazione/competenza/motivazione viene sostenuta con interventi strutturati di formazione di supporto, come una vera “manutenzione” delle persone e delle tecniche di trattamento: dalla supervisione sui casi clinici, alle riunioni di “audit clinico”, alla valutazione delle perfomance, degli outcomes e degli eventi critici attraverso strumenti di monitoraggio standardizzati, all’acquisizione di nuove tecniche di intervento, attraverso programmi formativi strutturati e poliennali. Operatori per il quale il paziente/ospite non è un “altro-da-me”, ma appartiene a quel mondo reale dal quale tutti possiamo trarre insegnamento, in quanto nessuno (e soprattutto chi opera in queste complesse aree dell’intervento sanitario) è immune da esperienze di sofferenza e di malattia, basti pensare ad alcuni recenti episodi che hanno interessato alcuni di noi. Operatori coraggiosi per una clinica coraggiosa, come ci ricordano Bensayag e Schmit: clinica del legame, della situazione, dell’accoglienza, dell’ascolto, dell’affettività, del desiderio, dell’impegno, del coraggio.
Insomma, senza enfasi ma con la consapevolezza della quotidiana fatica – non priva di contraddizioni e di momenti di empasse – di luoghi di cura “sufficientemente buoni” – richiamandoci al pensiero di Winnicott – e di operatori anch’essi “sufficientemente buoni”, attenti e rispettosi dei bisogni e dei diritti degli ospiti.
Certo, nulla e nessuno è senza contraddizioni, limiti, errori, grietas, barrage….l’importante è non chiudere gli occhi e girare la testa, ma esserci, cercare di capire, di affrontare, di sperimentare, di cambiare. Ed a volte, anche di decidere, non senza fatica.
Non è un caso infatti che eventi critici, anche meno drammatici di quelli su cui stiamo ragionando – avvengono in strutture dove vi è un forte isolamento degli operatori, spesso abbandonati in un lavoro solitario, con turni pesanti e con scarsa possibilità di essere supportati – anche attraverso strumenti organizzativi – nei momenti critici.
Questo vuol dire che, senza nulla togliere alla responsabilità individuale dei comportamenti messi in atto e delle loro conseguenze – che saranno valutati in sede giuridica- , sarebbe troppo facile leggere questi fenomeni con l‘ottica dell’ “operatore cattivo e violento” – che può anche esserci, e questo rimanda alla capacità di selezione da parte delle strutture – , ma di luoghi isolati, sotto vari aspetti non ultimo quelli strutturali (le grandi concentrazioni non facilitano mai la personalizzazione della relazione di cura, e questo proprio quando si stanno privilegiando le piccole strutture sul modello dell’appartamento protetto, per facilitare la convivenza ed il clima gruppale), con operatori isolati – spesso anche poco integrati nel territorio reale, anche per ragioni culturali -, con l’assenza di una dimensione del lavoro in èquipe e con una filiera gerarchica e di controllo/supporto debole o distante.
Questi episodi devono far riflettere tutti gli operatori dei sistema sanitario residenziale (ma anche negli Ospedali i problemi non sono differenti), non una volta per tutte e senza dare nessuno spazio a fenomeni di rimozione o di autocelebrazione (“noi non siamo così…”). Ed anche i sistemi di governance – dal livello regionale a quello aziendale – devono modificare gli standard per le autorizzazioni e gli accreditamenti, passando da rigidi – e spesso minimali – aspetti strutturali a criteri di funzionamento, di formazione, di monitoraggio dei processi e degli outcomes, che possono davvero alzare il livello tecnico di tutta l’offerta di residenzialità sul territorio regionale.
In definitiva, se ogni esperienza – anche quelle che non vorremmo fare – può servire per innescare il cambiamento, bisogna rilanciare “sguardi complici” sulle persone fragili e bisognose di cure, come ci ricordava Alda Merini sulla base della sua lunga storia di istituzionalizzazione manicomiale.
E questo anche per evitare che prevalga la normalizzazione dell’aberrante e la rinuncia all’impegno per il cambiamento, come ci avvertono i miti: “Queste cose non avvennero mai ma sono sempre.” (Sallustio, degli Dèi e del mondo)