Vaso di Pandora

Il suicidio assistito

Tema caldissimo davvero, non solo perché d’attualità, ma perché ci obbliga a confrontarci con il senso dell’esistenza e della sua fine, nonché con la concezione di un’etica laica lungi dal lassismo e da un relativismo spinto, ma che al contrario può porci quesiti morali stringenti. Fra parentesi: ritengo fuorviante l’alternativa secca, che qualcuno ha cercato di porre, fra un’etica guidata da una fede religiosa e il puro e semplice ossequio a un potere che impone la propria norma.

Il grande Dostoevskij scriveva “se Dio non c’è, tutto è lecito”, ma non possiamo seguirlo su questa strada. L’etica è in parte storicamente determinata, ma ciò non significa arbitrarietà e casualità: un’etica laica è un insieme di norme più o meno esplicite, che si formano sulla base di una serie di esperienze, di riflessioni, di rimandi, e che formano un patrimonio condiviso e dotato di senso pur se non immutabile. Esempio banale ma importante: gli eventi del secolo scorso hanno modificato fortemente la nostra valutazione etica della guerra.

Ma torniamo al tema. Per un cattolico, il discorso è relativamente semplice: si apre con una serie di riferimenti biblici e si chiude con l’art. 2280 del Catechismo ufficiale, che recita “Ciascuno è responsabile della propria vita di fronte a Dio che gliel’ha donata. È Lui che ne rimane il sovrano Padrone… Siamo gli amministratori, non i proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo”. Illecito quindi il suicidio e ogni intervento di terzi volto a incoraggiarlo, facilitarlo, assisterlo.

Da laico, la vedo diversamente, e mi permetterei di rilevare una contraddizione: di solito, se qualcosa mi viene donato, ne divento proprietario. Dall’articolo citato emergerebbe quindi un atto non di donazione, ma semmai di prestito, o di comodato d‘uso. Infatti è certo che Dio, se esiste, rivuole la vita sempre inesorabilmente indietro, e non raramente senza preavviso. Non mi pare etico che noi debitori non abbiamo alcuna voce in capitolo su momento e modi della restituzione. Ovviamente però questo argomento ci riporta al tema di Giobbe, e un credente potrebbe rispondermi: “Dov’eri tu quando Dio ha creato tutto? Chi sei per giudicare dell’eticità dei comportamenti di un Dio che è il supremo garante dell’etica?”.

Credo comunque sia affare di ciascuno di noi cimentarci con l’eterno dubbio di Amleto: “essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli. Morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, è soluzione da accogliersi a mani giunte”. Ma è proprio il rischio di una dimensione “altra” a trattenere il Bardo dal sostenere fino in fondo questa scelta: “morire, dormire, sognare forse: ma qui è l’ostacolo, quali sogni possano assalirci in quel sonno di morte…”. La scelta è dunque virile compito di ciascuno di noi, quando fossimo al dunque.

Molto complicata la posizione di un terzo nei confronti del suicida. Non è nella nostra natura, governata dall’empatia e dall’identificazione, assistere freddamente al suicidio di chicchessia, pensando che comunque sta esercitando un diritto: interveniamo anche con la forza, ritenendo di portare soccorso alla sua disperazione. Anche le culture che ammettono il suicidio, come quella stoica o quella dei samurai, lo delimitano in precisi contesti e circostanze, e ne contengono l’impatto ritualizzandolo.

Tuttavia il concetto di suicidio assistito, come quello di eutanasia, ci chiama a una richiesta opposta: quella di aiutare il prossimo a porre fine a una vita divenuta indegna di esser vissuta, troppo dolorosa o priva di prospettive dotate di senso: ciò, mantenendo una posizione sussidiaria, di supporto all’atto suicida messo in atto dall’interessato, oppure intervenendo direttamente come nell’eutanasia. Mi sembra che il non farlo potrebbe renderci colpevoli di tortura quando, come nel caso Welby, ciò significherebbe condannare a una vita di eterno dolore chi, consapevolmente e plausibilmente, continua a volere la morte ma non ha la possibilità fisica di procurarsela. Non si dica che questo è un esempio improprio non trattandosi di omicidio attivo ma di sospensione di interventi indispensabili per prolungare la vita: mi pare una distinzione degna dei casuisti, perché non vedo differenza etica reale fra un gesto atto a provocare la morte e una voluta omissione che la rende con certezza e immediatezza inevitabile.

Beninteso, l’interessato è unico padrone della propria vita e giudice dell’intollerabilità di essa, e se ciò è chiaro fino in fondo non lascia spazio alle selezioni naziste che qualcuno mostra di temere; ma tuttavia chi è chiamato ad assistere un progetto suicida può esserlo anche a prender posizione sulla validità di tale progetto: è esso psicopatologico oppure no? Chi cerca la morte è davvero se stesso o è zimbello di oscure forze interne dalle quali dobbiamo difenderlo? Accanto a qualche risposta in bianco o nero, ce n’è con mille sfumature di grigio, e non può soddisfarci la rozza – pur se necessaria in prima istanza – valutazione psichiatrico-forense della capacità di intendere e di volere. Questo vale in particolare per le mille condizioni depressive, da quella melancolica fino a quelle situazionali, con varia e spesso incerta applicabilità del concetto di malattia o almeno di “disorder” È certo questo il punto critico in cui nel nostro intervento professionale si pone con particolare drammaticità l’alternativa fra il criterio di beneficialità e quello di libertà; con prevalenza necessaria, in questo caso, del primo, che pure mostra la corda nel presupporre che siamo noi a conoscere il vero interesse del paziente.

Lo psichiatra ha fra i suoi compiti quello di prevenire il suicidio: ciò resta vero sempre o quasi sempre? Potrà venire il momento in cui questa funzione si ribalta nel suo opposto, se verrà chiamato come consulente in un progetto suicidario? L’obbligo di salvare la vita e quello di evitare interminabili e intollerabili sofferenze possono confliggere? Il Codice di deontologia medica risolve il problema in modo molto deciso all’art. 17: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”. L’inclusione del termine “favorire” sbarra dunque la strada non solo all’eutanasia ma anche al suicidio assistito. È ben vero che i divieti posti da questo Codice non hanno diretto rilievo penale ma solo disciplinare; ma è anche vero che l’inosservanza di essi oggi porrebbe il Sanitario in posizione difficile anche in un’eventuale sede giudiziaria.

La morte volontaria può attirare, almeno in apparenza, non solo in seguito a intollerabili sofferenze. È il caso di alcuni anziani che vedendo comunque prossima la fine preferiscono – credo legittimamente – gestirla anziché esserne gestito. Situazione che ci richiama alla visione stoica, espressa coerentemente da Seneca che vede nel suicidio un possibile, pur se certo non unico, consapevole coronamento dell’esistenza. Può esser paradossale che questi temi e la riflessione sul suicidio assistito – anche non legato a esigenze strettamente compassionevoli – si facciano strada proprio nella nostra epoca che, come scrive Borgna, con ogni strumento e in ogni modo tende a nascondere la morte: a eliminarla dallo sguardo e dalla riflessione. Ma forse il suicidio può essere proprio un modo per “neutralizzare” in qualche modo la morte. Se, come diceva Rilke, l’ingiunzione che ci chiama ad entrare nella morte rimane oscura, il farla nostra e assoggettarla, almeno quanto ai tempi e modi, alla nostra scelta e al nostro volere ci fa sentire in qualche modo meno inermi e inconsapevoli; meglio se, come nel suicidio assistito, in una cornice tecnologica segno del nostro potere di umani e idonea a raffreddare emotivamente la situazione. Ancora Borgna cita una paziente: “quando sto male il timore della morte si trasforma in desiderio della morte… Se credessi di poter rinascere dopo la morte, mi suiciderei”. Heideggeriano il concetto di “esserci per la morte”: proprio la morte, non l’esperienza del morire. La morte è per l’esserci la possibilità di non poter più esserci, la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile; allora in questa situazione-limite il suicida forse rivendica fino all’ultimo, paradossalmente, il proprio diritto ad “esserci”.

Sappiamo che questa scelta è accolta, insieme alle altre, nella legislazione di diversi paesi che consentono il suicidio assistito. Questo ha, mi pare, una sua specificità anche perché rompe l’isolamento che il più delle volte circonda il suicida. In questo caso non vale il verso di De Andrè “quando si muore si muore soli”. L’ottenere aiuto al suicidio presuppone in qualche modo la condivisione non solo di un momento fondamentale ma anche di un’ideologia; è quanto è accaduto in alcuni casi recentemente all’attenzione delle cronache, e che hanno inevitabilmente diviso l’opinione della collettività, rendendo tristemente oggetto di pubblica discussione quel che dovrebbe essere un fatto strettamente privato da trattare, se necessario, con estremo rispettoso riserbo.

È quasi superfluo parlare delle necessarie precauzioni da prendere contro possibili forme di istigazione e di induzione: confina con i casi di criminose pressioni dirette quello, delicatissimo, della persona – disabile o anziana – che chieda di morire perché si considera un peso per i congiunti: riproducendo in qualche modo il comportamento dei coetanei di certe tribù che, giunto il momento, si allontanerebbero nei boschi a morire.

Chi sia o sarà incaricato di dare via libera a un suicidio assistito avrà un compito non invidiabile, avendo il suo da fare per effettuare questi accertamenti, e più in generale quelli rivolti alla comprensione delle motivazioni esterne e interne; ciò, evitando tormentose e accanite indagini su una persona che ha ben altre preoccupazioni e prospettive.

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