Commento all’articolo di F. Rampini, apparso su La Repubblica il 04/07/2019
Rampini ci porta la sua esperienza emotiva di nomade di lusso, le cui continue “migrazioni” non sono certo legate a un disagio socioeconomico ma al contrario a un ruolo prestigioso di giornalista operante su scala mondiale.
Il suo contributo è quindi interessante perché la sua esperienza è scremata dei tanti dolorosi elementi che complicano la vita ai migranti “economici” (bel termine!) o fuggiaschi da guerre, di cui dobbiamo occuparci. Nel suo caso non c’è povertà, non c’è impreparazione, non c’è difficoltà di comunicazione linguistica, non ci sono gli aspetti che conducono il migrante in contesti degradati e non di rado inquinati dal crimine. Restano però gli aspetti di disagio affettivo così ben delineati dall’articolista: “quando arrivavo in Italia da quasi straniero erano sempre i provinciali a comandare … dovevo faticosamente ricostruirmi delle radici… per lunghi periodi della mia vita ho avuto un oceano di mezzo che mi separava dai miei affetti”.
Ricordo un convegno organizzato dal nostro gruppo oltre 20 anni fa, quando il problema-immigrazione cominciava a profilarsi ma senza ancora raggiungere l’impatto, pratico ed emotivo, attuale. Eugenio Borgna ci sottolineava come l’approccio di noi psichiatri a questo fatto epocale esigesse il riconoscervi la radice antropologica nell’esperienza dello sradicamento come struttura costitutiva, portante, essenziale, radicale. Essa è fatta di un vissuto di estraneità, di lontananza, di perdita della patria, patria che è fatta anche di linguaggio: l’incontrarsi o il non incontrarsi di linguaggi diversi ed estranei l’uno all’altro significa radicale incomunicabilità, non superata neanche se l’immigrato e l’indigeno che lo accoglie (?) condividono in parte un lessico: una parola di cui entrambi comprendono il significato letterale può avere, per l’uno o per l’altro, un senso diverso. C’è un bel racconto di Pirandello che inizia come una guerra fra poveri (ci ricorda mica qualcosa di attuale?) : un bracciante viene derubato della sua misera colazione da un corvo affamato, e in rivalsa lo accalappia, lo imprigiona, lo picchia. “Non che il corvo non gridasse le sue ragioni: le gridò, ma da corvo, e non fu inteso”. Questa incomunicabilità porterà a un finale tragico.
Ulteriore criticità: l’aspetto normativo. Ciò che per noi è doveroso può essere illecito per l’immigrato e viceversa. Basta pensare al rapporto fra generi, così differente nel nostro mondo e in certe aree del mondo islamico. Ci troviamo combattuti fra due diverse istanze etiche: il rispetto per la donna come da noi inteso, e il rispetto per un’altra cultura.
Il cimento coinvolge anche noi operanti nella salute mentale, chiamati ormai non raramente a intervenire – anche con modalità residenziale – in condizioni psicopatologiche di immigrati, in cui il discrimine fra disturbo mentale, disagio sociale, differenza culturale, non sempre facile da cogliere, diviene più che mai malcerto. Nel rapporto con il paziente culturalmente “altro” l’ostacolo all’ascolto di cui ci ha parlato di recente Fausto Petrella diviene duplice: con lo straniero ”alieno” e “alienato” il dialogo è particolarmente problematico. Del resto, anche la psichiatria oggettivante – che non è la nostra – fatta di sommatoria di sintomi che conducano alla diagnosi, trova difficile tipizzare queste condizioni.
Ma un Autore come Salvatore Inglese ravvisa in ciò addirittura una opportunità, grazie quella che chiama tensione polemologica non finalizzata alla ricomposizione irenica fra teorie conflittuali: conflitto, dunque, fecondo e atto ad allargare la nostra prospettiva. Egli considera l’etnopsichiatria non come una branca collaterale della nostra disciplina, ma come una radicale e feconda sfida metodologica. Credo si possa condividere tale impostazione: raccogliere questa sfida coniuga l’interesse a una nostra evoluzione tecnico – culturale con l’esigenza etica di mettere a disposizione del paziente, di qualunque etnia, la miglior professionalità possibile.
La povertà emotiva,la povertà economica, la povertà culturale, la disperazione esasperata di chi è costretto ad affrontarla che ne sa Rampini di tutto ciò? Il ricchissimo intellettuale “di sinistra” diventa allora responsabile della distanza tra l’uomo di strada e la polis.
I risultati sono quelli che vediamo giornalmente.
Per parlare di aborto bisogna essere incinte. Per parlare di figli bisogna essere genitori. Per sapere se un uovo è fresco bisogna essere una gallina. Per discutere di migranti e di migrazioni devi almeno aver fatto almeno una volta nubifragio a bordo di un gommone sgangherato.
No! Allora, il fatto che uno sia un ricco benestante non vuol dire che debba necessariamente dire delle stupidaggini. La ricchezza non è una colpa, nè la proprietà privata è necessariamente un furto.
Quindi, credo che rampini “dall’alto” del suo status socio-economico sia comunque autorizzato ad offrirci il suo punto di vista o meglio trovo che possa essere interessante vedere la questione nomadismo o immigrazione dalla sua angolazione. Altrimenti rischiamo di fare come salvini che accusa con disprezzo Carola Rackete (quella che ha forzato il porto di lampedusa con i migranti a bordo) di essere una “ricca benestante universitaria” e anche un po’ viziata si capisce e forse pure annoiata che invece di starsene in qualche ricca località balneare ad abbronzarsi o invece di girare in maserati e ferrari assortite come importebbe il suo pingue reddito se ne iva n giro a salvare disperati in mare. Che sfacciata! Che arroganza! Questa donnina qua. Insomma il reddito personale non mi pare un argomento adeguato per polemizzare efficacemente. E considerato che una ristretta elite di individui detiene la massima parte della ricchezza del pianeta, c’è da augurarsi che finalmente mettano i ricchi una mano sulla coscienza e l’altra al portafoglio. La notizia è semmai che ci sono dei ricchi cui stanno a cuore i guai del prossimo, forse. Sigh!
Errata “Nubifragio”
Corrige “Naufragio”
Ha ragione Gg. Basta con i radical chic di questa falsa sinistra che hanno rovinato l’Italia. E Salvini dice solo verità scomode. Se ne facciano una ragione tutti gli ipocriti che occupano le poltrone in Italia e in europa
C’è una povertà che è trasversale a tutte le classi sociali. Povertà di spirito, povertà di intelligenza, povertà di “umanità”, povertà di cultura, povertà di “memoria”, povertà educativa, povertà di idee, povertà dell’odio, povertà di comprensione e di comprendonio. Povertà di coloro che molto snobisticamente e in un tripudio di “paternalismo narcisistico” (mi scuso per lo scivolamento nella psicologia spicciola) credono che l’unica misura universalistica buona per combattere la “povertà” sia quella di garantire alle famiglie povere un pacco di viveri o una mensa. In tal modo pensando di sfruttare la “povertà” per acquisire qualche seggio in parlamento, eventualmente. “Se questi sono i democratici…”.
Quelle forme di “povertà” elencate più sopra insieme a una “povertà” di argomentazioni che si rivelano fatalmente insufficienti per non dire inutili nell’affrontare la complessità della realtà, non segnano soltanto la “fine delle classi sociali” (tutte accomunate e confuse da certa “povertà”) come qualcuno si augura (questo sì in modo davvero ipocrita) ma rischiano di accelerare quella che quel rinomato democratico di Putin (sto scherzando) ha preconizzato recentemente ed entusiasticamente come “la fine prossima delle democrazie liberali”. Proprio il Putin a cui guarda con servile entusiasmo quell’altrettanto raffinato democratico (sto scherzando) di Salvini che ha scelto l’ex kgb come stella polare che guiderà le magnifiche sorti e progressive delle “democrazie” del futuro dove non ci saranno più classi sociali ovviamente, ma soltanto “poveri di ingegno” che in barba a qualsiasi senso minimo della decenza decideranno chi ha la legittimità “a dire” e “a fare”. Non so quanto tutto questo centri col “nomade Rampini radical chic un po’ viziato e anche un tantino annoiato”, si capisce. Ma non tornerò più sull’argomento per non rischiare di trasformare questa nobile piattaforma in uno di quei “social” in cui si può dare sfogo al più bieco qualunquismo o dove ci si sente autorizzati a sparare cazzate impunemente. Temo infatti per quello che mi riguarda che senza interlocutori stimolanti anche la mia già scarsa “capacità” di argomentare possa avere un tracollo inesorabile.
Carissimo FAS di interlocutori radical chic con scarsa capacità di argomentare come lei stesso si è definito, possiamo farne a meno volentieri, come dimostrano i fatti politici e economici più recenti. Se ne faccia una ragione, coraggio. E non tornerò più sulla questione. Cordialmente