Commento all’articolo di P. Citati apparso su La Repubblica l’1 settembre 2019
Quanto dobbiamo, noi che ci occupiamo di psichiatria, alla eredità di Pascal?
Intanto la sua fondamentale distinzione fra esprit de geometrie ed esprit de finesse: “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”. La pone da subito, nel momento in cui nasce la scienza moderna e in cui la filosofia, da Cartesio e Bacon in poi, proclama la propria fiducia nella ragione, in ciò che è ripetibile e dimostrabile: Spinoza giungerà a proporre una etica “more geometrico demonstrata”. E’ una strada che condurrà all’affermarsi del positivismo e, in psichiatria, dell’organicismo. Come aveva mostrato Foucault, la pretesa onnipotenza della ragione scientifica aveva fortemente contribuito alla emarginazione del folle e all’ignoranza degli aspetti semplicemente umani dei suoi vissuti e comportamenti, squalificati perché irrazionali.
Blaise Pascal dal canto suo pone con forza un limite a questa ipervalutazione della “raison”, aprendo un filone che nei secoli dopo continuerà a proporsi, intanto in autori come il Kierkegaard di “Timore e tremore”: “Ciò che io chiamo propriamente umano è la passione, in cui ogni generazione comprende completamente l’altra e comprende sé stessa”. Si riafferma così il potenziale conoscitivo degli affetti, ben noto agli psicanalisti, espresso anche – sintetizzando all’estremo – nella distinzione fra erklaren – spiegazione scientifica – e verstehen: comprensione fra persone. Operazioni mentali fra le quali non è ammessa una gerarchia, ma riconosciuta una pari dignità (ciò in qualche modo ciò era presente già a Dante: “La forma universal di questo nodo credo ch’io vidi, perché più di largo, dicendo questo, sento ch’io godo”).
La visione di Blaise Pascal è tutt’altro che idilliaca, anzi intrisa di angoscia: “Mi spaventa e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là …”. Se l’uomo non sa da dove proviene e perché è qui, quasi zimbello di un qualcosa che lo trascende, neppure è in grado di prevedere dove andrà e perché. E’ il tema dell’angoscia esistenziale come sentimento del possibile ripreso anche questo da Kierkegaard come costitutivo dell’uomo e insito nel problema della scelta, per lui plasticamente raffigurata in quella di Abramo combattuto fra l’obbedienza a Dio e l’amore del figlio. Per Kierkegaard, “L’angoscia è la sola sicurezza”, e va assunta e accettata, comprendendo che i desideri che orientano la scelta “non sono che crisi”: è il concetto di conflitto. Non diverso, ancora una volta, il discorso di Pascal che afferma come la coscienza della propria miseria sia segno di grandezza (anticipa il concetto di elaborazione depressiva?). Dare invece la precedenza alle minuzie pratiche della vita quotidiana è per lui è puro “divertissement”, nel senso di diversione, di elusione del problema. Anche se ci è difficile condividere questa posizione, il concetto di divertissement ci colpisce in quanto parente di quello, a noi familiare, di negazione.
Non va dimenticato che Kierkegaard è un precursore degli esistenzialisti, che a lui fanno ampio riferimento, non meno che a Pascal stesso (pur non condividendo l’esito religioso del pensiero di entrambi); e che l’esistenzialismo è la struttura di pensiero che ha organizzato il messaggio di Basaglia. Stiamo dunque parlando di un filo rosso che ha traversato i secoli giungendo fino a noi, con conseguenze operative di non piccolo momento.