Premessa
Ricordo la televisione e il mio cuoco che andava dietro per veder se c’era qualcuno. Avevo dieci anni. Ricordo il mio primo cellulare visto con sospetto e anche con critica, esibizione d’importanza (un breve sketch televisivo di non so chi faceva vedere un ladro che fuggiva e il suono del suo cellulare lo faceva beccare).
Sono passati più di vent’anni da quel 1990 in cui iniziava la vera rivoluzione informatica, l’introduzione di mezzi comunicativi completamente diversi, dai fax alle email, poi internet, la rete virtuale. Ora è nel nostro contesto, nessuna battuta ma molte perplessità, pareri diversi, comunicazioni d’allarme o d’entusiasmo, condanne o sentenze che portano a ritenere ancora confusa la comprensione di qualcosa che ormai appartiene al nostro mondo e non possiamo scotomizzare. Insomma c’è confusione, mentre i nostri nipoti navigano come noi accendiamo la luce.
Cos’ha cambiato questa rivoluzione tecnologica, che impatto ha portato su chi l’ha vissuta e la vive nel quotidiano?
Ci interroghiamo chiedendolo a tre persone diverse per età, sesso e professione. E sperando di andare OLTRE, capire di più e dare spunti di riflessione, non di giudizio. La rete c’è, conosciamola meglio.
Prima intervista
Maria è una signora di quarantun anni, sposata con due figlie di otto e dieci anni. Il marito è medico, è laureata in lettere, ha avuto un’educazione borghese con molti stimoli, ma anche molta richiesta d’indipendenza precoce. Lavora nella preparazione di eventi, dopo altre esperienze lavorative nel campo della moda, ed è una madre vicina alle figlie. Ha ampiamente utilizzato e utilizza internet per lavoro.
Ma il suo utilizzo personale oltre al lavoro è limitato, né sembra aver modificato le sue abitudini, portato risorse culturali. È uno svago, un mezzo comodo per i propri hobbies, poche comunicazioni su facebook, uso per le foto e le email. Le bimbe rispondono a questo modello, usano, la maggiore soprattutto, il loro Mac per le foto e lo scambio delle stesse con le amiche, la condivisione del loro hobby preferito, lo sci, si messaggiano su questi temi, sulla scuola. La madre è tranquilla sull’assoluta innocuità del mezzo. Sono disinvolte nelle applicazioni che interessano a loro.
Diverso è il rapporto con il cellulare per Maria. L’uso del telefonino a partire dai vent’anni d’età diventa elemento ansiogeno, come riferisce. È collegato alla paura. Il controllo che le permette il telefonino sulle persone significative le causa angoscia: se qualcuno non risponde al cellulare è morto. Sia il marito che la madre devono comunicare i loro spostamenti e rispondere sempre.
Non dà il cellulare alle figlie per la propria angoscia, ma si contraddice: quando è utile per loro lo dà (ad esempio in gite sciistiche). L’aspetto è criticato e cerca di contenere il contatto telefonico con la madre ed il marito. Questa è la componente negativa insieme al non poterne fare a meno.
L’aspetto della messaggistica telefonica è prevalente, è una scelta rispetto al contatto telefonico verbale. Maria usa molti aggettivi: intrigante, ambiguo, misterioso, “è come un gioco”. Il messaggio è unilaterale. Ci mette dentro la sfida, il mettere davanti all’altro cose che può capire o non capire. C’è anche la paura che un dialogo non le permetta di esprimere il suo pensiero fino in fondo, c’è la paura di non essere capita. Dice “io sono molto aggressiva”, evitare il dialogo telefonico tramite un sms potrebbe permetterle da una parte di essere molto aggressiva per l’assenza del limite posto dall’altro, dall’altra potrebbe essere un modo per contenere e limitare l’aggressività che l’altro stimola e di esprimere il proprio pensiero con maggior riflessività. La messaggistica l’aiuta perché scrivere serve per mantenere, per arginare la paura di perdere il suo pensiero, così come le foto la tranquillizzano dal perdere la memoria. La vista è il senso prevalente, che rassicura sulla perdita. “Per me scrivere è catartico” (oggetto senza resistenza) dove sciolgo i nodi ed esplodo nell’aggressività come nell’amore. Ma è anche rifiuto e paura del dialogo, “tappo la bocca all’altro e la tappo un po’ anche a me”.
In tutta l’intervista Maria è collaborante, sincera, cerca le esatte parole per esprimere i vari sentimenti che accompagnano le stesse parole.
Mostra flessibilità nei giudizi ed interesse.
Seconda intervista
Francesco, professore universitario, sessant’anni, è da sempre all’avanguardia nell’uso del mezzo informatico nella comunicazione, il suo utilizzo è prevalentemente culturale. Gli preme sottolineare il potenziale culturale di cui è entusiasta.
Fondatore di uno dei primi siti specializzati sulla psichiatria, s’interessa da sempre di aspetti psicologici e sociali delle nuove tecnologie. Molto disponibile, è interessato all’argomento. Subito constata che ormai il mondo web è un ambiente che fa parte della realtà che ci circonda, di cui non possiamo non tenere conto in senso fenomenologico. Nel corso dell’intervista si definisce in due modi: sia l’intellettuale, sia lo psichiatra attento alla psicopatologia. Come psichiatra si augura che il DSM futuro consideri a parte la psicopatologia legata alla realtà virtuale. Questa è una realtà che dobbiamo considerare come psichiatri per capire il contesto in cui il paziente vive. Così come tutti noi non possiamo scotomizzare questo contesto che ci appartiene come realtà che ci circonda.
Bill Gates affermava negli anni Ottanta che nel virtuale “l’oggetto è senza resistenza”. Riprendendo il concetto di Jaspers, che la realtà sta nella coscienza dell’essere come tale, non possiamo oggi non includervi il mondo virtuale. Francesco afferma che, mentre per Freud e la psicoanalisi l’oggetto è qualcosa di diverso da me, esterno, qui l’oggetto è parte di me, non è solo una rappresentazione, è un oggetto: la mia rappresentazione nel mondo virtuale è qualcosa che fa parte di me, non è un oggetto esterno o altro da me, ma è in me, fa parte di me.
Francesco dice che il dialogo non è unilaterale ma possibile. Insiste sull’importanza di conoscere i codici della comunicazione virtuale, proprio perché ritiene inarrestabile questa rivoluzione tecnologica, invoca l’educazione dei giovani a fornire loro la giusta patente per entrare nel web. Condanna chi se ne sente fuori perché rischia un apartheid, un danno a sé e alla società, tanto più se è un intellettuale, un maestro, un riferimento culturale.
Questa rivoluzione tecnologica inarrestabile per forza coinvolgerà tutti e determinerà una rivoluzione sociale direttamente proporzionale all’acquisizione di molti. Béla Kun dice che le rivoluzioni sociali avvengono quando s’impone una rivoluzione tecnologica, in questo caso dev’essere acquisita da molti, altrimenti diventa strumento di controllo da parte di pochi. L’interesse economico prevarrà sulla cultura e sulla valenza democratica del mezzo.
Come psichiatra Francesco affronta anche i pericoli, la tossicità, gli effetti psicopatologici dell’utilizzo di questa tecnologia. La possibilità di costruirsi un falso sé, il rischio di scissione-fusione, e la dipendenza. Ovviamente tutti questi aspetti iatrogeni non dipendono dal mezzo, ma dalla personalità di chi vi accede e anche dall’invasione di modi sempre più “easy”, semplificati, per accedervi “senza patente”.
Francesco sottolinea nuovamente quanto sia importante conoscere i codici della comunicazione per non essere esposto ai rischi di tossicità. Se al bambino insegniamo solo come accedere ai siti, sicuramente non lo aiutiamo e tuteliamo. Non potrà farne un uso corretto, completo, vedrà un mondo parziale che più gli è facile cogliere. È importante che la scuola insegni i codici e non avvengano usi più semplicistici. La conseguenza e il pericolo sono la manipolazione da parte di chi gestisce la rete. Ai detentori del potere economico fa gioco un popolo di teledipendenti via internet piuttosto che un popolo attivo attraverso internet. Il potere economico ha bisogno dei “superficialoni”!
La conclusione della densa intervista è che tre sono i possibili rischi: la patologia; l’uso del potere da parte di pochi; l’abbassamento culturale attraverso la diffusione di un uso di livello limitato.
Terza intervista
Luigi, cinquantatré anni, è un giornalista, responsabile di una testata del quotidiano forse più diffuso in Italia. Ci accoglie con il suo cellulare in mano da cui non riesce a momenti a togliere lo sguardo perché le email dei colleghi lo raggiungono.
Da un elogio dell’oggetto, “sollievo” che permetteva di non dover lasciare in ogni luogo il proprio nome per essere raggiungibile (ricordate l’amico di Woody Allen in “Provaci ancora Sam”, impegnato in ambito economico, in particolare in Borsa? Esilarante esempio della schiavitù telefonica in anteprima), dalla gioia di potersi muovere, fare una passeggiata, andare in bici, passa al vederlo diventare man mano un invasore.
Luigi viene raggiunto a sproposito, in maniera maleducata, la gente non si presenta ma impone la sua presenza “Luigi senti, dimmi…” al posto di “scusi la disturbo, sono Pinco è Luigi? È libero?”.
Certo è indispensabile, il suo lavoro lo richiede.
Esiste un’invasione necessaria, utile, quella che anticipa una notizia, permette di progettare il lavoro del lunedì, ma queste invasioni utili hanno creato la dipendenza. Non esce senza telefono e questo gli dispiace. Eppure è utile, indispensabile.
Luigi si muove con rispetto verso gli altri, verso i familiari, ne fa un uso affettivo e discreto. Si controlla. Risponde immediatamente agli sms dei figli perché lo sentano affettuoso, loro invece aspettano, registrano l’importanza e rispondono in tempi diversi. Si colpevolizza perché l’occhio corre sui messaggi anche durante l’intervista. Eppure sta lavorando. Non segue un suo piacere.
Nel corso dell’intervista spiega come ha sempre voluto controllare i suoi bisogni ed impulsi, gustando la sua capacità di saper attendere la soddisfazione di un bisogno, questo è in contrasto con il modo prepotente dell’invasione ed è anche un’offesa alla sua attenzione.
Insomma il fastidio di averne bisogno, lui che controlla i suoi bisogni è messo in corner da quell’oggetto.
Come una volta, la telefonata ha per Luigi una sua importanza, una telefonata persa è associata ad una cosa negativa. La sua età lo rimanda a quando il suono del telefono fisso poneva il quesito: cos’è successo? Qualcosa di grave? Il cellulare ha rotto questa connessione per i giovani, non per lui. L’oggetto è ansiogeno, permette di raggiungere i familiari ma anche di rimanere sospesi per una non risposta.
Il cellulare impone un’accelerazione del pensiero, si dice abituato per mestiere, ma aggiunge anche che le comunicazioni degli stolti che non sanno filtrare le notizie importanti fanno cortocircuitare il cervello. Il telefono è una trasmissione di una comunicazione spesso non elaborata.
Il tablet rappresenta per il giornalista di nuovo un oggetto affascinante e fastidioso “sul tablet faccio tutto, leggo, gioco, guardo mail, TV, riesco a fare tutto e non mi doso più… mentre leggo un libro vado a vedere cosa succede nel mondo, guardo questo, quell’altro, un minestrone senza sapere, senza sapore, lapsus!”.
L’analogia con lo zapping televisivo lo porta a considerare la funzione del giornale: internet dà l’informazione autonomamente, il giornale è fatto da chi sceglie per te la notizia. Il taglio della notizia.
E anche il passato gli viene come stimolo, non si piega al computer per l’impaginazione, forza il computer, forza l’impaginazione perché ha conosciuto la base, il lavoro dei tipografi. Questo manca ai giovani.
Il tablet oggetto affascinante l’ha costretto ad un ripensamento, alle sei di mattina ha già letto le testate giornalistiche, corre ma per cosa!?
Riflette sugli effetti tossici.
L’effetto perverso della rete virtuale rende simile il lavoro dell’inviato speciale a quello che copia dieci minuti dopo, il giornalista non pensa a quello che sta facendo, perde la sua funzione di dare un’informazione “buona” che suscita dubbi, che fa riflettere, la sua funzione di intellettuale, internet ha portato all’equivoco che tutto ciò che non è mediato è vero.
“Le fotografie non dicono bugie, ma i bugiardi sanno fotografare benissimo” cita.
Il linguaggio di internet tanto è più semplice, tanto più non dà, non va in profondità. E vi accedono i più sprovveduti con un autovoyerismo pericoloso (facebook), se apparentemente i mezzi di comunicazione aumentano la comunicazione, l’individuo è sempre più solo in un non dialogo.
L’email, nel contesto aziendale, può essere autoritaria, la comunicazione di servizio per email ha un altro impatto rispetto alla discussione. È un diktat. Non posso più dire “guarda il pezzo è sbagliato, siediti e ne parliamo” no, i tempi rapidi e le modalità di risposta imposti dall’uso della posta elettronica mi permette solo di correggerlo e di non spiegare nulla. Risbaglierà. Il dialogo è contratto, diminuito, si esegue senza troppe domande.
Insomma, invece di usare la velocità del mezzo per migliorare la qualità, la si usa per aumentare la produzione. Il tempo risparmiato è buttato.
L’intervista con Luigi, sensibile e gentile, finisce in un’atmosfera un po’ velata dalla malinconia, il rimpianto di tempi più lenti, la necessità di dominare l’oggetto, la paura dell’onnipotenza che l’oggetto può dare e di un’accelerazione mortifera per il pensiero.
Conclusioni
Parlare, dialogare, esprimere le proprie emozioni, esporsi all’attacco, mostrare la propria rabbia distruttiva o vendicativa, non è mai stata cosa semplice per molti. Poco importa se l’oggetto che mediava questo era il diario segreto, la lettera anonima o la lettera non spedita, lettera e diario non erano oggetti negativi di per sé, lo diventavano se prendevano il posto alla capacità di comunicare la propria sofferenza o i propri sentimenti totalmente. Se diventavano l’unico sfogo. E intrappolavano in una solitudine senza confronto. E preludevano a “vado a prendere le sigarette… torno” o “basta vado a vivere da mia madre” o atti molto più cruenti come la cronaca ci sbatte in faccia ogni giorno.
Il confronto può essere facilitato dall’uso della scrittura, degli sms, solo se come premesse, pensiero solitario verso il potersi spiegare meglio all’altro. In un dialogo. Corre Maria il rischio di fermarsi per paura? Scontro o abbandono, sensazione che mai nessuno capirà quello che prova veramente e lei stessa se lo deve imprimere con foto, immagini e scritti per paura di perdersi, o meglio non essere riconosciuta dall’altro. Il cellulare diventa la rassicurazione che l’altro è ancora vivo, e non a caso è la madre o il marito che suscitano l’angoscia di morte. Le figlie no, (nell’intervista dice di darlo alla bimba quando va a sciare perché possa essere d’aiuto alla stessa).
Non diversamente il Professore parla chiaramente di un effetto tossico di cui la psicopatologia dovrebbe interessarsi quando l’oggetto diventa fonte di scissione: io sono quello che rappresento nel mio mondo virtuale, io sono quello che stravince, o uccide, o conquista, mentre continuo ad essere un altro nel mondo reale, ma non come Batman che sapeva di essere due persone, no, sono scisso, confuso, imprevedibile e posso fondermi con la mia rappresentazione-oggetto nel mondo virtuale fino a devastare il mondo reale con comportamenti che si collegano a questa patologica fusione (penso agli omicidi americani nelle scuole preceduti da ampia documentazione del tipo nel suo sito web). O posso coltivare un’immagine di me diversa, una sorta di falso sé sostenuta dalla rete, dalle comunicazioni in rete, solitudine, assenza di contatto, assenza di risposte emotive, solo quelle che provoco con la mia rappresentazione oggetto falso.
E arriviamo alla dipendenza che sembra preoccupare tutti. Il Professore ovviamente la fa riferire alla personalità dell’individuo, cosa indiscutibile, ma la facilitazione alla dipendenza sembra nelle interviste colpire in fondo i più anziani, affascinati da questi mezzi, da questa grande possibilità. Luigi ne è preoccupato, non Maria.
Cosa accomuna le interviste? La spiegazione del Professore su quanto il potere economico avrà in mano la possibilità di fare di una rivoluzione tecnologica potenzialmente portatrice di un cambiamento sociale, un ulteriore mezzo invece per non essere uno strumento democratico ma di manipolazione ci riporta alla nostra vecchia TV, che trasmetteva sceneggiati di opere letterarie ad italiani che negli anni ‘50-60 non le conoscevano, trasmissioni come “Non è mai troppo tardi” o “La donna che lavora”, informazioni… vediamo oggi cos’è la TV!! Ma il Professore è anche il portavoce delle enormi possibilità culturali che il mezzo permette e permetterà in modo democratico.
Accomuna una forte preoccupazione che questa rivoluzione tecnologica possa portare certo ad un ampiamento della nostra cultura, della nostra capacità di riflettere, pensare, inventare, scambiare opinioni e/o invece accelerarci in un vuoto senza pensiero.
Sì i nostri nipoti navigano come noi accendiamo la luce ma verso dove?
Sta a noi pensarci e, seguendo il consiglio del Professore, comunque tenere in testa una realtà che è nel nostro contesto, che ci appartiene.
O forse accompagnare il mondo web, e questa è la nostra riflessione conclusiva, seguirlo passo, passo, senza eludere, scotomizzare, non avere nessuna certezza, conservarci il nostro pensiero, il nostro dramma, il nostro personale specchio degli eventi.
Commento
Tale lavoro è molto stimolante pur riguardando solo, in via diretta, persone che sono “sorprese” dall’avvento del mezzo tecnologico e da esso “catturate”. Mi consente di pensare che chi, come Maria, ha problemi di controllo e angosce di perdita si confronterà con cellulare ed email modificando le difese dall’angoscia con mezzi che, ambiguamente, per la loro straordinarietà, possono rinforzarla incessantemente. Allora cellulare-umanizzato cui demandiamo la nostra sicurezza. Non sono ovviamente cambiate le forme dell’angoscia, sono presenti altri strumenti per potenziarla e trasformarne la patoplastica.
Quello che indubbiamente paghiamo è un ingresso “spregiudicato” nella vita altrui e uno “pseudo-contatto”, virtuale, con la liberazione di emozioni di ogni tipo, protetti da anonimato, assenza del motore empatico o comunque dal contatto con l’esperienza emotiva “reale” dell’altro, cosa che impedisce la creazione del “campo” di cui parlano i Baranger. Ancora, la rapidità di accesso e di risposta inibisce profondamente, spesso, uno “spazio-tempo per creare i pensieri”, la “triangolazione” di cui parla Britton, tra gli altri.