Vaso di Pandora

Elizabeth che vive per strada e non può tornare a casa

Ora ha 45 anni. E’ arrivata in Italia circa 7 anni fa dalla Nigeria, con il suo quarto figlio nella pancia ed un progetto migratorio che spinge tanti altri verso la stessa rotta.

A Catania l’impatto con il nuovo mondo è stato insostenibile e subito le è stato tolto il bambino tuttora adottato. Poi il tracollo.

Anni in strada, in situazione di gravissimo degrado, sul territorio romano nel 2017 e quotidianamente segnalata al Numero Verde SOS. Dichiarava false generalità.

Gli psichiatri in questi casi non hanno le idee molto chiare. Il quadro clinico di grave dissociazione del comportamento spesso fa fare diagnosi di schizofrenia, ma soprattutto per i soggetti migranti questa diagnosi è paradossale perché si tratta di persone che sono partite dai loro paesi con un progetto migratorio preciso e per arrivare in Italia hanno affrontato difficoltà che per essere superate richiedono grandi competenze.

Semmai il problema diventa il trauma che sono costretti a sperimentare quando gli eventi della migrazione li costringono a dover accettare il fallimento.

In questi casi non si tratta di schizofrenia, ma di un trauma insostenibile che costringe questi soggetti a una vita che eviti loro il riconoscimento del fallimento del progetto migratorio.

Pur di evitare questo riconoscimento diventano dei fantasmi nelle nostre città e poco conta se senza cure puoi morire! (puntualmente, quando si riesce a ricontattare i familiari, si scopre che a casa li davano per morti da tempo).

Di schizofrenia si tratta spesso solo per quella piccola quota (20% circa) di soggetti italiani che sono usciti fuori dal percorso dei propri servizi psichiatrici: anche in questi casi, comunque, si tratta di soggetti che sfuggono ai comuni canali di cure.

Elizabeth, che era partita dalla Nigeria per lavorare in Italia e mandare soldi a casa, dopo Catania, insieme al figlio, perde ogni progetto e in qualche modo arriva a Roma dove diventa uno dei S D con gravi problemi psichiatrici che vagano per la città.

I Senza Dimora a Roma sono circa 16 mila, ma in genere riescono ad accedere ai servizi sostanzialmente sostenuti dal volontariato, ma il problema grave è rappresentato da quel 3-5% (a Roma si tratta, quindi di circa 5-600 persone) che hanno gravi problemi psichiatrici e non accedono – spesso rifiutano attivamente –  i servizi e vagano senza assistenza per la città, collocandosi in modo anonimo in qualche aiuola, o sotto qualche colonnato o ponte (se si passa la sera tardi a S. Pietro si scopre che il colonnato offre riparo a un enorme popolazione di SD che proprio così riescono a sopravvivere anonimi).

Non possono essere accolti in alcun modo:  ogni servizio (ASL, Municipi, Vigili urbani, volontariato…), rinvia alle competenze di qualcun altro ed Elizabeth come tutti gli altri ha la conferma che il luogo dove poter sopravvivere, soprattutto mentalmente, (un po’ di cibo e indumenti è facile reperirli…) è la strada dove ripetutamente le ambulanze e la polizia devono accorrere perché, se non c’è un progetto, vale il suo progetto di una vita sospesa perché altrimenti devi accettare il fallimento della migrazione e la perdita violenta di un figlio appena nato.

Da un po’ di tempo, purtroppo fuori dai canali istituzionali, SMES-Italia, Binario 95, Caritas, SOS cercano di creare reti fra questi servizi che – tutti efficienti – però intervengono senza collegarsi fra loro. Questa rete deve quasi muoversi ai limiti (spesso oltre…) dei canali istituzionali perché Elizabeth non può essere ricoverata al Servizio Psichiatrico perché “non è acuta”; non può entrare in una clinica perché “non ha documenti” e, soprattutto “non collabora!”.

Da circa due mesi, in una rete “al di fuori delle regole”, il policlinico accetta di ricoverarla e soprattutto di tenerla finché Villa Maria Pia avrà un posto letto, ma in attesa del posto letto una residenza per anziani (!) ad Artena la ospita “pro-bono”.

Rosa e Stefania della SOS e Caritas la vanno a trovare col progetto di riconnettere i suoi legami di appartenenza che Elizabeth ha attivamente dissociato e sospesi come risposta al trauma. Si rintracciano un padre, una sorella e tre figli che dopo averla creduta morta non vedono l’ora di riabbracciarla.

Durante il ricovero al Servizio psichiatrico del Policlinico si riesce ad organizzare un contatto video con i familiari in Nigeria. Ovviamente lei per ora non può accettare il fallimento del progetto migratorio e, pur rimanendo a parlare a lungo con loro, dice che non sono suoi parenti. Subito dopo consegna a Rosa un pacco di banconote perché le custodisca. È emozionante! È ciò che lei ha salvato del suo progetto migratorio: soldi da mandare ai suoi figli. Chissà come avrà fatto in tutti questi anni a proteggere quel pacco di soldi vivendo per strada!

Chiede a Rosa di “tenerli” e per noi è un primo segno di legame con un mondo esterno di cui ti puoi finalmente fidare (gli psichiatri la chiamerebbero ricomposizione dissociativa e  recupero di sani livelli di attaccamento…).

E’ lei che propone a Rosa e Stefania il suo progetto di “Business Woman” quando tornerà in Nigeria. Vendere prodotti per la bellezza delle donne, soprattutto creme per capelli, treccine…

Ha accettato di firmare la richiesta di rimpatrio del C.I.R. e dalla residenza di Artena è dovuta andar via dopo tre mesi. Non esiste un posto con una minima protezione anche sanitaria dove possa essere accolta.

Ora con grande fatica riesce a tollerare la precarietà dell’ostello Caritas dove alle 9 di mattina deve uscire per poter tornare alle 17 della sera.

Abbiamo contatti con i servizi di Catania dove la conoscono bene, ma che, comunque non possono aiutarci. La lasciamo che ci parla del suo progetto di “Business Woman”, mentre ci chiede come potrà mai riavere suo figlio che intanto ha 10 anni ed è definitivamente adottato…

Non è una storia particolare.

Ci si chiede: perché per questi casi non possano esistere dei percorsi coordinati di cura e assistenza? Piuttosto che rincorrere la rabbia è utile accogliere il dolore di persone “sane”.

Si tratta di recuperare ciò che rimane del loro progetto migratorio e riconnetterlo con i loro contesti di appartenenza affettiva. Peraltro ci sarebbe un enorme risparmio economico. Il problema non sono i soldi, ma l’organizzazione che deve accettare la complessità.

Intanto, vista la impossibilità di invio di pazienti SD ai servizi psichiatrici, SMES-Italia, Binario 95 in collaborazione con Caritas e SOS dal 8 settembre prossimo attivano un ambulatorio per SD presso la Stazione Termini di Roma (via Marsala, 95).

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Commenti su "Elizabeth che vive per strada e non può tornare a casa"

  1. Grazie di questo articolo molto bello, per la storia di Elizabeth e l’equilibrio con cui vengono raccontate le contraddizioni e l’inefficacia di varie agenzie sociali e sanitarie. È chiarissimo come il vero problema riguardi l’accettazione della complessità da parte dell’organizzazione; aggiungo che è paradossale che questo succeda anche nei servizi psichiatrici perché complessa è comunque la persona umana.

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  2. In coincidenza con questo appassionato articolo, giunge dagli USA una ricerca su scala nazionale riguardante pazienti ricoverati nell’anno 2016 – 17: Autori, Chintan Trivedi e al ( non a caso, nessuno di loro è WASP). Pensieri e tentativi di suicidio sono risultati dieci volte più frequenti nei senza casa (spesso appartenenti alla minoranza black). L’apparente gelo delle cifre si integra con l’umana partecipazione a queste condizioni disperate.

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  3. Grazie per questo importante contributo che ci offre uno spaccato sociale sul quale le istituzioni dovrebbero operare in modo più sinergico affinché la dignità, il rispetto l’uguaglianza di ogni essere umano non sia solo sulla carta. Grazie per tutto quello che fate e perché ne parlate

    Rispondi
  4. Questo articolo è commovente nella sua semplicità: ignoriamo quello che abbiamo vicino. I S D aumentano sempre più nelle nostre città ma è molto difficile trovare una progettualità condivisa che permetta un aiuto costruttivo. Quindi infinitamente grazie per aver condiviso questa esperienza e forza per il progetto che è partito e che spero possa essere intrapreso in altre città.

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  5. Quanta tristezza in questa storia, che purtroppo è la foto dell’indifferenza di una società alla quale neppure basta la differenza di benessere che la stradivide da chi è scappato dal suo Paese sperando di soffrire meno e viceversa si ritrova a sprofondare in miserie impensabili.

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  6. Grazie Pino per l’articolo che trasmette la tua esperienza di psichiatra nei servizi ed uno sguardo affettuoso verso Elisabeth, una naufraga urbana per la quale la ricomposizione della sua storia di vita vale come un giro di boa trasformativo. Ma quante altre persone non hanno questa possibilità?
    Buon Natale a tutti!

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