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Effetto Lucifero: come le persone buone compiono azioni cattive

L’effetto Lucifero è un tema classico della psicologia sociale da quando, nel 1971, Philip Zimbardo lo introdusse alla disciplina. Per dimostrare questa tendenza, condusse quello che passò alla storia come il famigerato esperimento carcerario di Stanford. Durante il test, lo psicologo assegnò – in modo completamente casuale – a un gruppo di volontari il ruolo di prigionieri o guardie, all’interno di un carcere simulato. I partecipanti all’esperimento erano stati selezionati perché ritenuti equilibrati, maturi e privi di qualsivoglia passato criminale. Nonostante le precauzioni, Zimbardo fu costretto a interrompere l’esperimento dopo soli sei giorni. Le guardie erano infatti già diventate violente, sadiche e vessatorie nei confronti dei prigionieri. Questi ultimi, umiliati, dimostravano invece sintomi di apatia e disgregazione, tanto individuale quanto collettiva.

In seguito all’esperimento fu coniato il termine effetto Lucifero. Tali parole descrivono la metamorfosi di persone tendenzialmente buone, considerate normali – nel senso di prive di qualsiasi disturbo o parologia mentale – sia dai loro conoscenti sia da psicologi esperti, le quali si trasformano in mostri, capaci anche di compiere atti disumani. Questo effetto suggerisce che la malvagità non deriva solo da chi siamo, ma viene anche determinata dalla situazione specifica in cui ci troviamo. Nei decenni successivi, vari studiosi hanno proposto spiegazioni e individuato condizioni e situazioni che danno origine all’effetto Lucifero.

La de-individuazione nell’effetto Lucifero

effetto Lucifero: un manifestante arrestato
La de-individuazione ci spinge a fare cose che normalmente non faremmo ed è alla base dell’effetto Lucifero

Tra queste condizioni che causerebbero l’effetto Lucifero troviamo la cosiddetta de-individuazione. Ogni volta che, nella mente di un soggetto, l’appartenenza a un gruppo è predominante, la persona non agisce come singolo con una propria consapevolezza di sé, bensì perde la capacità di riflettere, per almeno quel momento, sulle proprie azioni. Il gruppo di appartenenza dà la sensazione di anonimato e riduce il senso di responsabilità. Nel corso dell’esperimento carcerario, le guardie formavano un gruppo coeso. Indossavano tutte la stessa uniforme color kaki, con occhiali da sole riflettenti. Questa divisa rendeva il riconoscimento personale più difficoltoso e creava la condizione perfetta per la de-individuazione. Quando usciamo da noi stessi, perdiamo tutti i freni inibitori che normalmente possediamo. In aggiunta, non si può sottovalutare l’impatto che il ruolo di direttore del carcere, ricoperto dallo stesso Zimbardo, ebbe durante l’esperimento.

La sua autorità aiutò molto nella legittimazione del comportamento vessatorio delle guardie. Il privilegio, se visto come fattore legittimante, può far emergere il lato peggiore delle persone. Lo dimostrò bene Stanley Milgram, nel 1963, portando avanti i suoi famosi esperimenti sull’obbedienza. Nel corso di questi un’autorità, e nel caso specifico uno scienziato, ordinava di dare delle scosse elettriche a un’altra persona, fino a raggiungere un voltaggio potenzialmente letale. Più del 60% dei partecipanti, pur dimostrando sintomi di tensione e protestando verbalmente, diede comunque la scossa più forte. Anche in questo caso, non si trattava certo di assassini o potenziali tali, bensì semplicemente di persone plagiate da altre fino alla de-individuazione, all’uscita da loro stessi e dai loro consueti paletti etici e morali.

I meccanismi alla base dell’effetto Lucifero

Quel che fa più riflettere, alla luce dei risultati di questi importanti esperimenti, è il modo in cui giustifichiamo i nostri comportamenti immorali. Anche questo involontario meccanismo facilita l’effetto Lucifero. Quando maltrattiamo un’altra persona, siamo tendenzialmente motivati a proteggere l’immagine che abbiamo di noi stessi, perché desideriamo evitare auto-sanzioni e sentimenti di colpa inflittici dalla nostra stessa coscienza. Queste strategie, che potremmo definire di autodifesa, implicano un disimpegno morale e ristrutturano la condotta dannosa di una persona in comportamento benevolo. Ciò avviene attraverso l’uso di eufemismi. Per esempio, la morte di civili innocenti diventa soltanto un danno collaterale. Alternativamente, si allarga la responsabilità anche ad altri o la si trasferisce proprio su di loro. Non è neppure rara la colpevolizzazione o de-umanizzazione della vittima (Albert Bandura, 1999).

È possibile contrastare questa tendenza disumanizzante?

Queste strategie sono molto più diffuse di quanto vogliamo ammettere. È per caso possibile invertirle? Abbiamo testimonianza di una serie di esperimenti in cui i partecipanti hanno preso coscienza delle loro azioni immorali. In simili situazioni, le persone hanno mantenuto la loro individualità e sono rimaste fedeli ai loro valori e alla loro morale. Si sono rese conto di come fossero state chiamate a portare avanti compiti lesivi non solo della dignità delle loro vittime, bensì anche della propria. Mantenendosi estranei alla manipolazione, questi individui sperimentarono una prospettiva completamente diversa. Lo loro capacità di contrastare la de-individuazione li mantenne motivati a non superare la linea di demarcazione della loro morale e li spinse a vedere l’altro sotto una luce più positiva e dignitosa.

In questo modo, gli psicologi di riferimento di tali esperimenti conclusero che certi meccanismi collocati alla base dell’effetto Lucifero possono essere invertiti e usati per creare nuove strategie di riconciliazione. Una vigorosa forza di volontà e un senso della morale ben definito sono in grado di contrastare la tendenza ad abbandonarsi a violenza e soprusi ingiustificati.

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