Vaso di Pandora

Effetto IKEA, la comunicazione dietro il fai da te

La teoria dell’effetto IKEA si deve a Dan Ariely. Professore di psicologia ed economia comportamentale alla Duke University, nonchè penna del Wall Street Journal, Ariely è anche uno dei fondatori del Center for Advanced Hindsight. Il professore si occupa di ricercare il campo delle scienze comportamentali e studia le possibili applicazioni pratiche delle scoperte effettuate. L’accademico ha trovato una spiegazione psicologica precisa al successo della catena di arredamento svedese. Ebbene, a suo avviso non ci rechiamo in questi superstore soltanto per risparmiare quando arrediamo o rinnoviamo casa, cercare pezzi particolari, procurarci un piumino o ricreare le sensazioni che avevamo da bambini quando assemblavamo i Lego. Eppure, quest’ultimo aspetto – secondo quando racconta Ariely nel suo ultimo libro, Perché, edito da ROI Edizioni – ci dà una soddisfazione che potremmo definire additiva.

L’effetto IKEA è un processo mentale

Effetto IKEA: una donna ride soddisfatta
Montare e maneggiare quanto acquistiamo ci riempie di soddisfazione

Il nome effetto IKEA si deve naturalmente al gigante giallo e blu dell’arredamento. Esso è, fondamentalmente, un processo mentale che deve anche la filosofia esplicativa, e non solo il nome, alla più celebre tra le aziende svedesi. Quando un oggetto lo costruiamo da noi, come ad esempio gli arredi della catena, finiamo inevitabilmente per legarci a esso molto di più rispetto a quanto faremmo con qualcosa acquistato già assemblato. Per essere precisi, gli arredi IKEA sono già costruiti e hanno solo necessità di essere montati. Il principio resta però comunque valido, dal momento che dobbiamo attivarci in prima persona per avere l’arredo pronto e utilizzabile. Ci legheremo quindi a lui esattamente come se lo avessimo realizzato personalmente a partire dal legno. Si è optato per questo nome particolare dal momento che, all’interno di ogni scatola in cartone piatto del gigante scandinavo, troviamo pezzi da assemblare non appena giungiamo a casa.

Non finisce comunque qui. Secondo Ariely, infatti, c’è dell’altro. Questi oggetti, e il loro assemblaggio, ci danno dipendenza. La definizione di effetto IKEA, non a caso,contempla il coinvolgimento fisico e quello mentale. L’attenzione profusa a mettere insieme i diversi pezzi, seguendo istruzioni grafiche non sempre decifrabili, e la fatica spesa vengono premiati con la costruzione traballante che utilizzeremo. Poter dire “me lo sono montato tutto da solo!” ci riempie di orgoglio. Ecco, il principio è esattamente questo. Lo scaltro successo di IKEA ruota attorno a un’esperienza. Montare i mobili è una scocciatura, una difficoltà che il cliente eviterebbe volentieri. Eppure è stata la fortuna assoluta del gigante dell’arredamento. Se l’intuizione del compianto Ingvar Kamprad è oggi il primo home retail del mondo, dipende anche da questo. Semplificare il montaggio per immergere il cliente in questa dimensione gli garantirà soddisfazione e realizzazione personale.

Applicazioni dell’effetto IKEA

L’effetto IKEA non è soltanto legato al montaggio dei mobili. Lo si può infatti applicare in qualunque attività che preveda il raggiungimento di un risultato fisico e tangibile. Prendendo in prestito le parole di Ariely:

“Quando lavoriamo di più e investiamo un po’ di tempo e impegno aggiuntivi, percepiamo un maggiore senso di titolarità. Pertanto, godiamo maggiormente del frutto dei nostri sforzi.”

La molla che ci spinge e, di fatto, origina l’effetto IKEA, è il puro egoismo. La soddisfazione di essere riusciti a fare qualcosa da noi ci fa sentire completi e realizzati, gratifica il nostro bambino interiore, che non muore mai, indipendentemente da quante primavere abbiamo sulle spalle, e alza autostima e autoconsiderazione. Tra le cose da fare prima dei 35 anni, e pure dopo, occorre inserire la voce “montare i mobili IKEA.” Possiamo allargare il significato di effetto IKEA pensando anche al cucinare per altri. L’azione implica infatti lo stesso principio. Si tratta di realizzare qualcosa che mangeranno e, dunque, servirà a qualcuno. Ciò ci dà un senso di pienezza, non soltanto allo stomaco. Le nostre creazioni diventano parte di noi, testimoniano le nostre capacità e ci segnano nel profondo dell’identità.

Studi neurologici e complessità

Secondo le conoscenze di cui disponiamo nei campi delle neuroscienze e della neurobiologia, l’effetto IKEA non dovrebbe affatto funzionare. Il nostro cervello è una macchina sicuramente meravigliosa, ma anche piuttosto complessa, e ha un solo obiettivo, ben preciso: quello di risparmiare energia. Per questo motivo, nel prendere le decisioni di tutti i giorni utilizziamo scorciatoie mentali, di qualunque tipo esse siano: che cosa indossare la mattina ancora assonnati o quale candidato sia meglio assumere in azienda. Queste ultime, talvolta, finiscono per trarci in inganno. Si tratta dei cosiddetti bias cognitivi. Cadiamo in queste trappole a causa del cervello, il quale fa veramente di tutto per risparmiare energia preziosa. Per quale motivo allora impegnarci in attività che potrebbero essere svolte da altri per noi? Perché non scegliere il prodotto finito e risparmiare tempo e impegno?

Perchè se così facessimo saremmo più disposti ad abbandonarlo. Certo, avremmo risposto in maniera utilitaristica alla richiesta di disimpegno dell’encefalo ma ci troveremmo emozionalmente molto distanti dall’oggetto realizzato. Dobbiamo considerare l’effetto dotazione, in inglese endowment effect. Ciò che viene maneggiato per più tempo ha maggiori probabilità di essere scelto, o conservato, rispetto a quanto non si possiede. Ariely e i suoi collaboratori sostengono che ciò si debba allo sforzo, e alle emozioni positive che le persone provano quando completano dei compiti. Sentirci competenti ci appaga e ogni volta che possiamo mostrare ad altri la nostra bravura ne guadagniamo in soddisfazione e autostima.

Leggi anche: “Frasi sulla frustrazione: 15 citazioni su cui riflettere

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