Nei giorni scorsi si sono svolti due eventi degni di rilievo: Il congresso ISPS a Verona e le Giornate per il Benessere Mentale di Comunità, a Caltagirone.
Io penso che se le proposte che sono state presentate in queste due occasioni fossero portate avanti ovunque in Italia, la situazione dell’assistenza psichiatrica ne risentirebbe molto positivamente. Anche perché si tratterebbe, in sostanza, di impegnarsi nella direzione di restituire dignità e soggettività ai malati e ai loro familiari e, conseguentemente agli operatori, assegnando il giusto peso all’impostazione prevalentemente medica e, quindi, basata sull’intervento farmacologico in Psichiatria, attualmente preponderante in Italia, a discapito degli altri tipi di intervento.
La presa in considerazione del paziente da solo
Forse, si tratta, soprattutto, di provare a rendersi conto che, per quanto riguarda i pazienti psichiatrici gravi, la presa in considerazione del paziente da solo, l’effettuazione dell’esame psichiatrico e il raggiungimento della diagnosi e del corrispondente trattamento farmacologico, non sono sufficienti a garantire un’evoluzione positiva delle situazioni patologiche in questione.
Il paziente e la sua famiglia
Viceversa, l’impostazione di un trattamento adeguato per quanto riguarda la patologia mentale grave, mi riferisco alle psicosi del versante schizofrenico, a quelle dell’area dei disturbi gravi dell’umore e della tipologia del disturbo di personalità, nelle sue varie forme, non può più prescindere dalla necessità di prendere in considerazione prima di tutto il resto della famiglia e, quindi, la situazione nella quale il paziente vive o, comunque, il contesto di appartenenza del paziente stesso.
Questo significa che dovremmo iniziare a pensare alla “malattia del paziente” non tanto come a qualcosa che si verifica esclusivamente nella mente del paziente ma che si determina in relazione al tipo di legame tra il paziente stesso e un altro membro della famiglia, generalmente uno dei due genitori, all’interno del rapporto con il quale non si è giunti a vivere il processo di separazione l’uno dall’altro. Con la conseguenza che il paziente non ha avuto fino ad ora la possibilità di accedere alla utilizzazione di parti di sé da cui non può prescindere, se vuole provare a diventare una persona autonoma.
Le necessità
Da tutto ciò ne consegue la necessità di:
- Intraprendere un trattamento che comprenda il resto della famiglia insieme al paziente e tutte le persone del contesto di appartenenza del paziente e della famiglia, per quanto riguarda la necessità di fronteggiare la “crisi psichiatrica acuta” e di gestirne l’evoluzione, con o senza ricovero psichiatrico, secondo le modalità proposte dal cosiddetto “Open Dialogue”, integrato dall’uso appropriato di farmaci;
- Una volta superata la fase acuta, si tratta di pensare a come proseguire nei confronti del paziente, avviandolo in CT o seguendolo presso il CSM-CD e del suo contesto, familiare e non; secondo me l’ideale è di avviarli, comunque, ad un gruppo di psicoanalisi multifamiliare in cui il paziente e i suoi familiari, soprattutto il genitore con cui è più coinvolto, abbiano la possibilità di rendersi conto in che situazione stanno; si tratta di un gruppo in cui sono presenti parecchie situazioni familiari simili, rappresentate dalla famiglia al completo o da qualche suo membro, anche soltanto uno;
- Contestualmente, va verificato se è necessaria rivolgere un’attenzione particolare al paziente, dal punto di vista psicoterapico, cioè l’instaurazione di una psicoterapia duale e/ o di quello specifico nucleo familiare o di farlo partecipare ad una terapia di piccolo gruppo ad orientamento analitico, riservato solo a pazienti;
- allo stesso tempo, ove si ritiene necessario, il paziente va avviato ad un lavoro riabilitativo su di sé nelle varie forme in cui questa parte dell’intervento può essere portata avanti, sia a livello pubblico che privato-convenzionato, volto ad incrementare le opportunità, per il paziente, di scoprire-riscoprire le proprie capacità, sia sul piano espressivo che di avvicinamento-avviamento all’individuazione di sé attraverso il lavoro.
Lo scopo
Lo scopo di tutto l’insieme degli interventi proposti propone di spostare il focus dell’intervento dal paziente ai legami disfunzionali in cui il paziente è inserito, in particolare con quello dei due genitori con cui è sussistito, fino ad oggi, un legame simbiotico, alla loro riformulazione, sia durante la fase acuta che successivamente, nella fase di stabilizzazione e di “rimessa oppure messa in moto” della propria vita.
Credo che seguitare ad assistere, come è accaduto lunedì mattina a Caltagirone, nella prima giornata delle “Giornate per il Benessere della Comunità”, al fatto che gli apicali dei Dipartimenti di Salute Mentale e di chi rappresentava il titolare della Cattedra di Psichiatria dell’Università di Catania, che non poteva essere presente, impiegassero una mattina a discutere la terapia farmacologica per la Depressione e non partecipassero ai restanti cinque giorni e mezzo di lavoro in cui si è discusso di Comunità Terapeutiche Democratiche, di Open Dialogue e Attività Dialogiche e dei Gruppi Psicoanalisi Multifamiliare non porti molto giovamento al cambiamento nella direzione che propongo.
Non si tratta di seguitare disdegnare, da parte di uno dei due schieramenti, un certo orientamento da parte di che ne ha un altro, astenendosi dal confrontarsi.
Altrimenti, è un po’ come dire che la psicofarmacologia, che propone un intervento allopatico, cioè farmacologico costituisce l’aspetto scientifico della faccenda, mentre tutto il resto va considerato come un contorno più o meno influente, costituito da un trattamento che stimola la partecipazione attiva del paziente, di tipo omeopatico, ma che, di certo, non costituisce il nocciolo del trattamento.
Io credo che bisogna uscire da questa impostazione, non perché i farmaci e il loro uso non siano importanti, ma perché questo non vuole dire che, poiché hanno un effetto sul paziente, questo significhi che l’origine del disturbo consiste in una alterazione del funzionamento biochimico del paziente stesso, come prima causa.
Non è stato, fino ad oggi stabilito ciò.
I farmaci che si usano in Psichiatria sono tutti sintomatici
Facendo il paragone con la polmonite, non abbiamo a disposizione antibiotici, ma soltanto antipiretici. Oppure, se facciamo il paragone con il Covid, non abbiamo il vaccino ma i farmaci sintomatici che si usavano prima del vaccino e che hanno salvato molte vite, ma non risolto il problema.
Forse sarebbe più onesto dire la verità: che i farmaci sono utili, ma che vanno soppesati per quello che valgono. Di fatto, come tutti sappiamo, da soli non risolvono il problema.
È opportuno pensarli come parte di un intervento composto di più parti, come ho accennato prima, di cui è necessario che possano far parte ma la cui modalità di gestione, nel tempo, va supervisionata. Cioè, sottoposta a verifica, come ci ha dimostrato il brillante intervento del dott. Vaggi, a Verona, che si è dedicato, su invito di Gianni Giusto, ad avviare un processo di rivalutazione sistematica di quali farmaci sia giusto utilizzare, in quale quantità e per quanto tempo, senza che l’uso del farmaco si trasformi, nel tempo, in una protesi fissa, di cui non si sa esattamente quanto ci sia bisogno ora, in questo momento, da parte del paziente.
Ritengo che avere immesso, anche per quanto riguarda l’uso del farmaco, l’abitudine alla verifica del modo e del senso in cui si somministra sia meritorio e, soprattutto, utile.
Esattamente di questo si tratta: sottoporre a verifica continua la veridicità di tutti gli interventi proposti in relazione ai risultati ottenuti.
Video meliora proboque, deteriora sequor
L’invito formulato da Andrea Narracci è totalmente condivisibile. Il problema è: come mai c’è bisogno di ribadire queste cose? Dovrebbe far parte del patrimonio professionale di ogni operatore psichiatrico la consapevolezza di quanto sia necessario un approccio multidimensionale alla sofferenza mentale, che possa utilizzare il farmaco ma non soltanto. Abbiamo attraversato, chi più chi meno, avventure tecniche e culturali: il modo di pensare psicanalitico, quello fenomenologico – esistenziale, le varie forme di intervento familiare, la psichiatria sociale: tutti approcci importanti, nessuno decisivo.
Eppure – ammonisce Andrea Narracci – nell’operare spesso si dimentica una impostazione doverosamente complessa in favore di un approccio riduttivamente farmacologico. Perchè?
I meccanismi possono essere tanti: timore del coinvolgimento, che può indurre a un approccio riduttivo; pigrizia mentale, che invita alla facile scorciatoia del farmaco; mancanza di tempo; una sorta di neo-organicismo legato al pur benvenuto sviluppo delle neuroscienze … eccetera.
Non saprei indicare un rimedio: forse, chissà, qualche forma di supervisione reciproca inter pares…
Condivido naturalmente la prospettiva terapeutica verso la sofferenza psichica e di angoscia proposta da Narracci e Pisseri, ovvero la presenza di capacità relazionali del gruppo curante verso i pazienti, pazienti non-nevrotici, portatori di angosce che chiamiamo psicotiche e che hanno “danneggiato ,in ragione di distruttive emozioni, l’apparato per pensare. Le difficoltà simboliche, il terrore, l’aggressività rivendicativa, la tenue speranza, emozioni con cui si incontra il gruppo curante (parlo naturalmente non solo dello psichiatra ma di ogni operatore) richiedono, forse, pretendono, che chi incontra con diversi ruoli le proiezioni, le fughe, le richieste, i vuoti degli ospiti, sia nella condizione di essere consapevole che sono dirette a chi abita dentro il paziente e con lui si incontra.
Allora? Io ritengo necessario lavorare in questa direzione, La psicoanalitica concezione dello psicotico richiede un non evitabile lavoro sull’operatore, in grado poi di lavorare su se stesso nell’incontro con l’ospite chiedendosi” chi sono ora io per lui in questo investimento emozionale?”- Qualcuno che lavori sulle emozioni del gruppo curante, gruppi esperienziali secondo Corrao, anche secondo me…. Discorso molto impegnativo.