È ampiamente riconosciuto che Emanuele Severino si sia rifatto al pensiero di Parmenide (fra parentesi: questi, anche se ha scritto in greco, era salernitano).
Pensiero ancora vivo con la sua contrapposizione alla realtà quotidiana e apparente di un Essere unico, finito, immutabile, solo depositario del Vero. E’ stato però oggetto di ampie critiche: importante quella di Aristotele che lo ha attaccato anche sgarbatamente, proclamando la necessità di riferirsi al concreto della natura.
Quindi già i presocratici avevano segnato due linee principali su cui si è mosso il pensiero occidentale: da un lato il percorso Eraclito – Aristotele – protoscienza ionica e alessandrina – scienza moderna; dall’altro quello che da Parmenide (e forse Platone) giunge fino a pensatori come Kierkegaard, o Severino stesso. Articolata e complessa la posizione di Heidegger che si confronta col problema del rapporto fra Essere e divenire, poiché esserci significa essere nel tempo. Pensatori comunque critici nei confronti di un atteggiamento scientistico totipotente e di per sé parcellizzante, nonché di una tecnologia certo utile ma disumanizzante. Tuttavia forse la distanza fra i due orientamenti non è così grande: lo scienziato che formula una teoria cerca, mi pare, una verità non direttamente sensibile e tuttavia più “vera” di quel mutevole accidente fenomenico che è il dato osservativo o sperimentale, e pertanto la teoria in qualche modo potrebbe ricordare l’Essere Parmenideo; anche se non va dimenticato che la teoria va verificata nel confronto con il dato osservato.
Platone, dicevamo, che ha mostrato interesse per il pensiero eleatico al punto di dedicarvi un dialogo: “Parmenide”, appunto. La sua è una analisi critica ma rispettosa: il suo concetto di mondo delle idee non è certo sovrapponibile a quello di “essere” indivisibile e in sé conchiuso: ma ne condivide l’attenzione ad una verità sovrasensibile.
Si è parlato di influssi orientali nel pensiero di Parmenide: nelle Upanishad, testi di poco anteriori all’epoca del filosofo greco – campano, si afferma che la realtà sensibile complessa e mutevole non è che una espressione del Brahman, realtà fondamentale che non può essere colta coi sensi nè definita. Secoli dopo Schopenhauer ne trarrà il termine “velo di Maya”.
Il tema in qualche modo ci riguarda come professionisti che intendono, nella prassi e nella teoria, andare al di là del particolare – la sintomatologia – per attingere qualcosa di essenziale, di fondamentale: Ballerini la definiva “intuizione eidetica d’essenza”. Con ciò non si diventa parmenidei ma tuttavia condividiamo con il suo pensiero la spinta alla ricerca di ciò che “sta dietro” e che è generale, non particolare o parcellizzato: all’essenza di una condizione, al di là della mutevolezza e poliedricità dei fenomeni. Già il fenomenologo Minkovski – uno degli ispiratori di Basaglia – additava l’esigenza di cercare, nella schizofrenia, non tanto una costellazione di sintomi quanto il c.d. “disturbo fondamentale”. E, in altra ottica, ciò ha a che fare con il nostro ineludibile compito professionale , interpretare o quanto meno comprendere: ce lo ha ricordato di recente Fausto Petrella.