Butto giù queste note stimolato dalla recente lettura di due articoli che, per quanto dissimili, mi paiono accomunati da un sottile filo, a mio giudizio alquanto preoccupante: la crescente spinta da parte della cosiddetta opinione pubblica – ma, seppure sotto un diverso profilo, anche di un’ampia quota di “addetti ai lavori” – a decentrare ulteriormente il focus d’attenzione del professionista della salute mentale da quello che, invece, non può che esserne la “Stella Polare”, e cioè il paziente in quanto essere umano che soffre.
Il primo articolo (Paolo Saccò, “Folle uccide, condannata psichiatra”, su www.lettera43.it) riporta un fatto di cronaca, invero risalente ad alcuni mesi fa: la condanna di una psichiatra francese, ad opera del Tribunale di Marsiglia, per un omicidio perpetrato da un paziente che aveva in cura.
La sentenza dei Giudici d’Oltralpe – in Francia, la prima di tale tenore – si allinea ad un filone che la giurisprudenza nostrana, invece, percorre già da qualche anno. Circa tale ormai consolidata tendenza dei magistrati a ravvisare, in capo allo psichiatra, profili di “responsabilità per fatto altrui” è in corso da tempo un acceso dibattito, nel quale ci si interroga sia su questioni di ordine squisitamente tecnico (le peculiarità della responsabilità professionale dello psichiatra) sia, più in generale, sul ruolo della psichiatria nella società.
Svolgo per punti qualche considerazione:
1. La “responsabilità per fatto altrui” è figura assolutamente unica nell’ambito della responsabilità professionale del medico. Non ho personalmente memoria, a sostegno di quanto dico, di vicende giudiziarie effettivamente verificatesi, ma trovo alquanto improbabile che specialisti di altre branche della medicina possano essere chiamati a rispondere, in situazioni sovrapponibili (così sui due piedi mi può venire in mente l’epilettologo che sottostimi, sotto il profilo diagnostico o farmacoterapeutico, la patologia del paziente che ha in cura il quale poi, magari alla guida di una vettura, ha un accesso a causa del quale arreca nocumento a terzi), per non aver preso in considerazione, nella valutazione complessiva della persona giunta alla loro osservazione, i danni che questa potrebbe cagionare ad altri a causa della sua patologia (obbligo che invece sembra costantemente gravare, come una spada di Damocle, sul capo dello psichiatra).
2. C’è di più: non solo quest’ultimo deve tenere in debito conto quanto ho testé detto ma, ove le scelte terapeutiche, assunte “in scienza e coscienza” e volte ad ottenere un miglioramento clinico del paziente, confliggano con la garanzia della collettività in ordine agli atti che costui può porre in essere, sembra esservi l’implicita quanto inequivocabile pretesa che il professionista opti senz’altro per il secondo dei suddetti interessi (la garanzia della collettività). Faccio un esempio un po’ brutale: prima di ridurre ad uno schizofrenico paranoide una terapia farmacologica che, pure, gli sta provocando pesantissimi effetti collaterali (e quindi ne peggiora la salute, laddove si consideri l’intero stato di benessere o malessere della persona e non solo la malattia come cosa a sé stante), si esige che il medico valuti con estrema attenzione se il malato, una volta acquisita maggior capacità di movimento, non andrà ad agire i contenuti dei suoi deliri (e, in caso affermativo, gli si richiede di mantenere quel “contenzionamento chimico” a dispetto dei problemi clinici che provoca alla persona che ha in cura). Va da sé che già solo questo punto giustifica appieno il titolo che ho scelto per il presente commento.
3. A questo proposito, mi viene in mente un altro dato: le cause per malpractice che vedano implicati psichiatri sulla scorta della “normale” responsabilità professionale degli altri settori della medicina (ossia, in parole povere: il malato è stato curato male per imperizia, negligenza o imprudenza, non in quanto egli abbia, ad esempio, aggredito qualcuno, ma semplicemente perché la sua salute è peggiorata) sono relativamente poche se rapportate a quelle per “responsabilità per fatto altrui” di cui ho discusso finora; tale rapporto colloca poi la psichiatria in una posizione del tutto unica ove lo si confronti con l’analogo rapporto nelle altre branche mediche nelle quali, a quanto mi risulta, non solo non vi sono casi di “responsabilità per fatto altrui” ma quelli per “normale” responsabilità professionale sono enormemente più numerosi.
4. Segnalo infine come, a rafforzare il filone giurisprudenziale in materia inaugurato da qualche anno, sembri essersi insinuata, in maniera più sottile di quelle illustrate ai punti precedenti, un’ulteriore peculiarità: mentre l’arte medica è tradizionalmente fondata su un obbligo di mezzi e non di risultato (ovverossia: il sanitario deve dimostrare di essersi avvalso dei più opportuni strumenti che la scienza gli offre in quel momento ma, al tempo stesso, viene tenuto in debita considerazione il fattore “imponderabilità” che governa l’attività medica, per cui egli non è tenuto ad assumersi l’obbligo di garantire la riuscita dell’atto che compie), in alcuni casi i magistrati sembrano invece esigere dalla psichiatria (settore dove la suddetta imponderabilità è vieppiù marcata) un obbligo di risultato. Si badi bene: tale inversione dell’onere gravante sul professionista sembra aver luogo proprio nei casi di “responsabilità per fatto altrui”, e quindi la pretesa nei confronti del medico è che egli preveda esattamente gli atti che il suo paziente andrà a compiere.
Andavo interrogandomi, nello scrivere queste righe, se le mie considerazioni non stessero sempre più assumendo i contorni di una campagna a difesa della professione che esercito. A ben vedere, credo sia un falso problema: in questo ambito, come forse in nessun altro, il sanitario ed il suo paziente si trovano “sulla stessa barca”; e ciò in quanto degradare il ruolo della psichiatria a mero “braccio sanitario della Pubblica Sicurezza” equivale, dalla parte del malato, ad alimentare lo stigma che fa coincidere l’insanità mentale con la pericolosità e, soprattutto, equivale a sacrificare la dignità e centralità della persona portatrice di sofferenza psichica a favore di beni ed interessi “altri”.
Tale mortificazione (e marginalizzazione) del malato mentale alligna anche, sotto un diverso punto di vista, in un secondo articolo (Giuliana Proietti, “Perché la psichiatria contemporanea è in grave crisi”, su www.huffingtonpost.it), questo di pochi giorni fa. L’Autrice esamina la prolungata e profonda crisi della psichiatria, e segnatamente della ricerca in ambito psichiatrico, desumibile dal suo essersi quasi totalmente appiattita, a suo dire, sulla mera compilazione di manuali diagnostici. Auspica quindi il superamento del sistema dei vari DSM (“Manuale Diagnostico e Statistico per le Malattie Mentali” di cui sta uscendo in questi giorni negli Stati Uniti la Quinta Edizione) in una direzione “più scientifica”: nello specifico, riporta le opinioni di esperti di enorme autorevolezza che stanno promuovendo un abbandono della classificazione delle malattie mentali su base sintomatologica a favore di un sistema fondato su criteri genetici, neurali e cognitivi, che siano oggettivabili tramite tecniche di diagnostica strumentale.
Faccio una brevissima digressione: agli studenti di Medicina viene insegnato come la semeiotica (la branca che si occupa dell’esame dei “dati” del paziente, una determinata “costellazione” dei quali permette di diagnosticare una data patologia piuttosto che un’altra) distingua tra “sintomi” e “segni”, i primi essendo quei dati “soggettivi” che solo il malato può percepire, e quindi fornire (ad esempio, il dolore, la sua qualità, la sua ubicazione, ecc.; oppure, in ambito psichiatrico, la tristezza, l’angoscia, le allucinazioni, ecc.), i secondi essendo dati “oggettivi” in quanto osservabili da soggetti esterni, e talora misurabili tramite strumenti ( ad esempio, la febbre, una tumefazione, la glicemia, ecc.; oppure, in ambito psichiatrico, il pianto, un dato comportamento bizzarro, ecc.).
Tornando all’articolo, ho la netta e sgradevole impressione che la direzione ivi suggerita dai Colleghi che l’Autrice cita, più che un superamento del sistema DSM, ne costituisca la radicalizzazione. Già il DSM, infatti, si pone espressamente l’obiettivo di oggettivare la malattia mentale al fine di rendere quanto più condiviso il lessico tra i professionisti che se ne occupano. Pur non essendo un grande sostenitore del DSM, mi pare che giammai esso cerchi di oggettivare il malato mentale: la valutazione di quest’ultimo continua a passare, e non potrebbe essere altrimenti, dall’osservazione della sua esperienza umana da parte di un altro soggetto, lo psichiatra; il quale, dal canto suo, deve attenersi ad una specifica nomenclatura nel designare ciò che cade sotto i suoi sensi e ad una specifica classificazione nel raggruppare in diagnosi i dati di cui è entrato in possesso con tale metodo.
Ora, se la cura dell’individuo portatore di disagio psichico deve passare attraverso un giudizio sullo stesso, ai fini diagnostici, che non è più fondato su ciò che egli prova e percepisce e su ciò che, di converso, fa provare e percepire allo psichiatra nell’ambito di quella particolare relazione umana che si instaura tra medico e paziente, ma è mera raccolta di risultanze di laboratorio – un esame liquorale, una scansione del Sistema Nervoso Centrale tramite tecniche di neuro-imaging –, non è lecito chiedersi, una volta di più: “E il paziente, dov’è?”.
ho un amico (parlo di 40 anni fa) a cui fu sottoposta una terapia di riduzione del farmaco per l’epilssia a fini di ricerca. Il giovane smise gradualmente di assumere il farmaco. La condivisione era non basata su una relazione ma su una ricerca. Ebbe un incidente , morì una persona e lui fu gravemente segnato psicologicamente. Risparmio gli aspetti economici. Erano i tempi in cui non c’erano come non ci sono ora strumenti adeguati di giudizio, ma rivendicazioni ed assicurazioni in un sistema perverso economico. Ma segnalo che il tutto non fu in relazione al rapporto curante paziente, relazione di estrema importanza perchè il mio amico conosciuto a sette anni e visto fine al letto d’ospedale dove subiva i risultati della conoscenza scentifica, aveva una grande consapevolezza dei suoi sintomi grande capacità di insight, di ridemensionare anche le sue capacità e potenzialità e solo un’efferata e disdicevole manipolazione in base alla ricerca lo aveva precipitato in una tragedia. La relazione insomma non è che una tappa fondamentale di ogni processo terapeutico della medicina. In ogni aspetto del prendersi cura. E il tuo articolo lo spiega. Il paziente c’è.
Anche in questo caso il paziente non c’è. C’era forse una ricerca
Consiglio la lettura di Catanesi e Carabellese – Suicidio e responsabilità professionale – Riv. Psich., 46,2, Mar Apr. 2011. Il testo integrale si trova facilmente su Internet. Le considerazioni svolte valgono anche per l’aggressività eterodiretta, che anch’essa danneggia il paziente in molti modi: la sua tutela e quella della società non mi paiono in contrasto così diretto. Certo il vento è un po’ cambiato dagli anni 80: l’accento si è spostato dal principio di libertà a quello di beneficialità. Ma cerchiamo di non cadere nella “medicina difensiva”.