Vaso di Pandora

E’ davvero così gRAVE?

A 18 anni ho conosciuto Davide, di qualche anno più grande. Grazie a lui ho iniziato a frequentare i locali techno e ad appassionarmi di quel genere musicale, scoprendo addirittura di apprezzarne anche la versione più veloce, la tekno.

Lui era intraprendente, sveglio e molto furbo; per niente avvezzo alle regole. Mi parlava di “muri di casse”, musica ad altissimo volume e gente che andava avanti anche per giorni interi a ballare.

«Voglio venire con te! Mi devi portare».

E così è stato.

Quel giorno lo ricordo come fosse oggi, adesso, questo momento: il mio primo rave.

Al luogo ci siamo arrivati grazie a dei codici passati via messaggio, in una rete incredibile di passaparola. Era già l’una di notte e c’erano parecchie automobili. La festa era già iniziata.

Mentre lui cercava parcheggio, ho visto la polizia. Costeggiava l’area, si muoveva lentamente.

«Perché sono qui?».

«Tranquilla Sofi, non ci fanno niente!».

Il capannone di fronte a me era enorme, mi sembrava quello di una fabbrica abbandonata.

Ho avuto timore. Che fosse troppo per me. Mi sono sentita piccola. Vedevo persone entrare, uscire, chi seduto per terra a chiacchierare e una giovane donna che lì vicino stava assumendo indisturbata chissà quale sostanza. L’ho guardata negli occhi, non ho trovato una fine; erano vuoti e persi.

Nei locali avevo visto persone drogarsi, ma mai così, davanti a tutti, senza badare agli sguardi degli altri.

Eppure a nessuno sembrava strano.

Mi sentivo diversa da loro, ma non sbagliata.

Nessuno mi guardava, come succedeva spesso nei posti in città. Nessuno faceva caso a come fossi vestita. Non importava chi e come fossi.

Dalla tasca stavo per tirare fuori una banconota da 10 euro, speravo mi bastassero, non avevo altro. Anche quella sera mia madre me l’aveva fatta pesare, per lei spendevo sempre troppo e per cose inutili. Saranno utili le sue giocate all’enalotto, con le quali spera di cambiare vita. Non ho ancora capito cosa non le vada di quella che viviamo.

«Ehi Sofi, metti via quei soldi, l’ingresso è libero!».

Ci siamo incamminati, attorno a noi il buio era totale, ci orientavano soltanto le luci e i suoni che ci arrivavano da là avanti: eccola, la festa promessa.

Ricordo un muro altissimo di casse, non avevo mai sentito la musica ad un volume così alto. Le persone ne erano attaccate, molte altre vicine; Davide voleva portarmi avanti, ma io mi tiravo indietro. Sentivo le vibrazioni sin dentro lo stomaco, pensavo mi sarebbe scoppiato il cuore. Volevo vomitare. E invece ho iniziato a ballare, senza fermarmi. E poi stanca, sono tornata in macchina, ho dormito quel tanto che mi bastava e poi ancora in mezzo, a ballare.

Volavo.

Mi sentivo in un posto in cui potevo ascoltare il mio corpo e la mia mente: muovermi e fermarmi se fossi stata stanca. Dormire. Staccarmi se ne avessi avuto il bisogno. E poi tornare in pista. Senza sottostare ai tempi imposti dai locali che frequentavo, che dettavano i ritmi al divertimento. Con orari di inizio e fine.

Ho chiesto di tornare a casa intorno alle 7 del mattino. Presto, rispetto agli altri. Ma per me era stato già tanto. Sulla strada c’erano ragazzi e ragazze che chiedevano passaggi per la stazione. Ne abbiamo caricati finché c’era posto.

C’era chi tornava in Liguria, chi in Piemonte. E chi parlava il tedesco o solo l’inglese.

La rete era più estesa e radicata di quanto potessi immaginare.

Da quel giorno ho iniziato, almeno una volta al mese, a sentire forte l’esigenza di partecipare a eventi di quel tipo. Festa dopo festa divenivo sempre più consapevole dei rischi che correvo, eppure quella necessità di allontanarmi momentaneamente dalla realtà, dalla vita frenetica che conducevo, dall’ambiente attorno a me che sentivo così giudicante e dai pensieri soffocanti che mi occupavano la testa, aveva finalmente trovato modo di essere sfogata. Per poi permettermi di ripartire, il giorno dopo, più energica e libera che mai.

Preferivo di gran lunga i rave illegali a quelli organizzati perché non c’erano limiti: al numero di persone, gli ingressi non erano in alcun modo vincolati a prenotazioni o a un certo tipo di abbigliamento. Eri libero di portare cibo, vestiti, bevande e droghe.

Non c’era alcuna forma di dipendenza, nessuna forma di venerazione al capo deejay, centrale nei party legali, quasi idolatrato, davanti a tutti, in mezzo alle casse.

Un’illegalità che non deresponsabilizza e che porta a forme significative di autoregolazione: si pulisce, si collabora, ci si cura gli uni degli altri. Nelle feste più grandi sono presenti anche strutture per la “riduzione del danno” che si propongono di informare circa le droghe (non condannano, non promuovono, ma informano), alcune attrezzate per analizzare chimicamente ciò che si sta assumendo e quindi restituire i rischi.

Ci si autogestisce riferendosi a tre uniche regole: rispetta te stesso, rispetta gli altri, rispetta l’ambiente che ti circonda.

Non ho mai visto persone azzuffarsi. Litigare. Offendersi. Nessuno che si fa grosso con qualcun altro. Succedeva spesso nei locali in città o fuori, nei parcheggi.

Quello che trovo ai rave è la possibilità di fermarmi, sedermi, ritrovarmi; condividere momenti della mia vita con altri. Ore che trascorrono in compagnia di sconosciuti che ti ascoltano, come nessuno fa nella vita ordinaria. Ore che passano veloci, senza che tu te ne accorga.

Studenti, operai, medici, ingegneri, idraulici e perfino famiglie, con i figli sulle spalle. Giovani e chi lo è meno. Chi partecipa ai rave non è soltanto l’emarginato, il disadattato, il drogato. Sì, ci sono sicuramente anche loro, ma non solo, come vogliono far credere. C’è posto per tutti. Un posto che accoglie e include, senza deridere o discriminare.

Sono sempre tornata arricchita da questi scambi così vari, con la curiosità di chi avrei rivisto e quando. A quale festa. Sicura che prima o poi, qualcuno di quella sera, l’avrei rincontrato.

È così che si forma una comunità di persone.

A te che scrivi e a te che leggerai, sicuramente ti starai chiedendo della droga e del morire. Sì, ti confermo: ai rave party girano le droghe. Vendute sotto gli occhi di tutti, dai finestrini dei camper. In molti ne fanno uso, forse la maggior parte. Eppure ne conosco parecchie, me compresa, che non ne hanno mai assunte, riuscendo comunque a ballare, per ore e ore e ore. Solo e grazie al potere della musica e della condivisione. Una musica che ti raggiunge e ti porta via. Che non ti fa pensare, che ti permette di trasformare quell’ammasso di pensieri pesanti in un flusso continuo e leggero. Sono riuscita a sciogliere più di una questione spinosa lasciandomi guidare dalla musica e sentendomi come “fatta”.

Una percezione della mente e del corpo molto lontani da come sono nella vita quotidiana.

Credo che in molti solo con la musica non ce la facciano a sentirsi così parte, forse per questo usano droghe. L’uso che ne ho visto fare, pur riconoscendo pericolosità e rischi, è stato molto consapevole: usare la sostanza per sentirsi dentro. E scoprirsi, conoscersi, interrogarsi e guardare agli aspetti della propria vita e quella degli altri da una nuova prospettiva.

C’è anche chi viene solo per sballarsi. Da “fare schifo” per quanto assumono sostanze.

Loro mi rattristano. Per la loro incapacità di fare i conti con la realtà, per l’impossibilità di divertirsi che incarnano, per non essere in grado di ascoltarsi e ascoltare. Ci sono delle individualità problematiche nei rave, come in qualsiasi altro luogo, che purtroppo non riescono a farsi avvicinare…

E si muore. Come in tanti altri luoghi. Perché il rave è un contenitore di tante cose diverse, anche in contraddizione: voglia di stare insieme, ma anche tante solitudini; bisogni e desideri; piacere e godimento che però può diventare sballo e svuotamento. Creatività. Musica. Paure e angosce. Libido. E morte.

Non ho mai guardato ai rave come a una “cosa” di sinistra, piuttosto che di destra.

Ma anzi, li collocherei al di fuori di queste logiche, una realtà indipendente che rende possibile lo stare in relazione con se stessi e gli altri al di fuori dei limiti imposti dalla società a cui appartieni. Che ti limita, vincola e che specula sul tuo divertimento. Sulla tua voglia di vivere momenti di piacere e di aggregazione.

C’è qualcosa di innaturale o sbagliato nel farlo? Forse no. Ma non perdo nemmeno tempo a chiedermelo.

Di politico, c’è la scelta di organizzare queste feste in luoghi abbandonati o, peggio, costruzioni mai terminate o in disuso in cui è stato sprecato molto denaro pubblico. Incarnano il fallimento del nostro sistema. In diverse occasioni, dopo aver dato notizia di questi luoghi proprio per l’occasione di una festa, lo Stato ha dovuto prendersene la responsabilità.

Forse, parlare dei rave oggi serviva per distrarci da altro. Che preoccupa molto di più.

Sofia è un nome di fantasia. Non lo è la testimonianza che ho raccolto. Sofia, nella vita è una giovane donna di 22 anni, con una laurea triennale in psicologia e che ora è all’estero. Studia, lavora e si mantiene.

Ho parlato con molte e diverse persone per scrivere questo contributo, ho chiesto dei rave; le loro voci si somigliano. Sono simili alla storia che mi ha raccontato Sofia.

Non ho parlato del decreto appena emesso dal Governo perché rischiavo di essere una delle tante voci che parlano senza conoscere. Volevo entrare dentro. Prima.

Questo mi ha fatto pensare alla nostra, di responsabilità. Di promuovere una modalità di stare nelle cose in cui prima di muoversi bisogna conoscere, prima di decidere bisogna essersi fatti un’idea. Che nasce dal confronto, dall’approfondimento. Dalla cultura. Dal pensare.

Dobbiamo evitare di alimentare i pregiudizi. Era il rischio che correvo, se avessi scritto di rave prima di essermi confrontata con chi vi partecipa.

I pregiudizi, sono quelli che portano le persone che sanno che lavoro in una comunità psichiatrica a chiedermi, ancora oggi: «Ma possono uscire da soli?».

Soprattutto oggi, dobbiamo promuovere un senso critico, conoscenza e curiosità. Non alimentare pregiudizi.

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 Il Vaso di Pandora, dialoghi in psichiatria e scienze umane è una rivista quadrimestrale di psichiatria, filosofia e cultura, di argomento psichiatrico, nata nel 1993 da un’idea di Giovanni Giusto. E’ iscritta dal 2006 a The American Psychological Association (APA)

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