Dalla relazione al Parlamento del Garante delle persone private della libertà[1] si evince che nel 2022 85 persone detenute hanno attuato il suicidio, 80 maschi e 5 femmine (5,9%)[2]. Un fenomeno prevalentemente maschile. Tuttavia se il dato viene rapportato alla popolazione detenuta al 31 dicembre 2022 – composta da 56.174 maschi e 2.372 femmine – si evidenzia che il tasso di suicidi nei maschi è 1,42 per mille detenuti mentre quello delle femmine è 2,1 per mille.
“Il tasso (grezzo) di mortalità per suicidio per gli uomini è stato pari a 11,8 per 100.000 abitanti mentre per le donne e 3,0 per 100.000.”[3] Quindi nella popolazione detenuta il tasso di suicidio nei maschi è 12 volte maggiore rispetto alla popolazione generale mentre nelle donne, pur su numeri ridotti, è addirittura 70 volte superiore. Mentre nella popolazione generale il suicidio vede un rapporto maschile/femminile di 4/1, nei detenuti è 1/1,5 con una prevalenza femminile.
Pur rappresentando meno del 5 % della popolazione detenuta, il tasso di suicidio nelle femmine apre importanti interrogativi. Richiede analisi e un affinamento delle sensibilità nonché nuove risposte. A questo proposito segnalo il primo Rapporto di Antigone sulla detenzione femminile.[4]
Un fenomeno sul quale richiama l’attenzione quanto avvenuto nel carcere di Torino come riporta La Repubblica: “A poche ore dalla morte di Susan John, la donna di 42 anni che si è lasciata morire di fame, un’altra detenuta si è tolta la vita nella sezione femminile del carcere di Torino. (…) Si chiama Azzurra Campari. Si è impiccata. (…) Sale così a tre il drammatico bilancio delle detenute che si sono tolte la vita nell’ultimo mese e mezzo a Torino. Il 29 giugno Graziana Orlarey, 52 anni, si era suicidata a pochi giorni dalla sua scarcerazione per il timore di cosa avrebbe trovato fuori.”[5]
Sono state aperte indagini della magistratura e non vi sono elementi per potersi esprimere sui singoli casi. In particolare su chi è giunto alla morte dopo circa tre settimane di digiuno attuato in una Articolazione Tutela Salute Mentale.
I problemi generali sono noti: sovraffollamento, condizioni ambientali, carenze di personale, concezione della pena prevalentemente retributiva, con quindi limitati interventi trattamentali e terapeutici. Vi è il bisogno di misure alternative, di formazione, lavoro, relazioni affettive e sessuali, il mantenimento di ruoli cruciali come quelli genitoriali, sviluppo della giustizia riparativa.
Per le donne detenute con figli di età inferiore ai 6 anni, nella precedente legislatura, era stata approvata alla Camera una legge (Siani) per promuovere misure alternative, poi fermata al senato. Riproposta dall’on. Serracchiani nel marzo 2023 è stata ritirata per gli emendamenti presentati dalla attuale maggioranza.
Gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (ICAM), pur previsti in via sperimentale dal 2006 per consentire alle detenute madri che non possono usufruire di alternative alla detenzione in carcere, di tenere con sé i loro figli, non si sono sviluppati.
L’esperienza della detenzione rileva non solo per gli adulti ma anche per bambini. Infatti, è noto che i minori che hanno subito e/o subiscono la detenzione dei genitori sono a maggiore rischio di depressione, di disturbi da stress post-traumatico, ansia e problemi nel comportamento. Al contempo l’assenza del genitore per la detenzione è spesso accompagnata da intensi sensi di colpa negli adulti e negli stessi minori. Quello dei figli è un aspetto ma certamente non è l’unico.
La situazione richiede un approccio che vada oltre ai criteri imputabilità/non imputabilità, sano/malato mentale per tenere conto in ciascuna persona degli aspetti biologici, psicologici, sociali, ambientali e culturali, nella loro reciproca interazione.
Occorre una presa in carico intersistituzionale, multidimensionale e multiprofessionale, che sulla base della rilevabilità, modificabilità possano essere affrontati i diversi bisogni, aumentando diritti e utilizzando tutte le risorse, a partire da quelle della persona, della sua famiglia, della comunità della quale continua ad essere membro.
Questo apre una riflessione sull’efficacia di interventi giudiziari che privando totalmente la persona della libertà, interrompono bruscamente tutti i ruoli sociali, anche quelli nei quali la persona è ben funzionante e non commette alcuna violazione di legge. Una maggiore selettività nella individuazione di obiettivi e degli strumenti trattamentali potrebbe evitare la totale desocializzazione e favorire il reinserimento durante o dopo il fine pena. A questo proposito occorre una presa in carico degli aspetti sociali (lavoro, casa, ecc.) ed è assai interessante la proposta di legge per l’istituzione delle case territoriali di reinserimento sociale.[6]
Infine occorre sviluppare approcci, legali e sociali ma anche una medicina ed una psichiatria che tengano conto del genere compreso l’impatto che ha l’esperienza detentiva, le modalità della sua esecuzione.
Di fronte all’urlo che viene dal mondo penitenziario, la sensibilità, la vulnerabilità, l’intelligenza e la forza delle differenze di genere possono aiutare a cambiare il sistema.
[1] https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/pub_rel_par/
[2] Oltre ai suicidi vi sono stati 32 decessi “per cause da accertare” e 4 attribuite a “incidenti”.
[3] Dato 2016. Istituto Superiore di Sanità Il fenomeno suicidario in Italia. Aspetti epidemiologici e fattori di rischio. https://www.epicentro.iss.it/mentale/giornata-suicidi-2020-fenomeno-suicidario- italia#:~:text=Il%20tasso%20(grezzo)%20di%20mortalit%C3%A0,e%203%2C0%20per%20100.000.
[4] https://www.antigone.it/news/antigone-news/3470-presentato-oggi-il-primo-rapporto-di-antigone-sulle-donne-in-carcere
[5] Repubblica Torino 11 agosto 2023https://torino.repubblica.it/cronaca/2023/08/11/news/suicidio_carcere_torino_impiccata-410796687/
[6] https://www.societadellaragione.it/campagne/carcere-campagne/oltre-il-carcere/
Condivido del tutto.
La civiltà di un popolo si esprime anche e forse soprattutto nella capacità di riparare.
I metodi e i mezzi per farlo implicano competenza, dedizione e luoghi adeguati.
Mi pare che l’articolo della Debora Tancredi si integri bene con la disamina al solito chiara e completa di Pellegrini.
Grazie.
Concordo in pieno, anche sulla impossibilità, per carenza di informazioni, di valutare quanto è davvero accaduto alle due suicide. Ma mi pare di poter spendere qualche parola su Susan John. A quanto se ne sa, il suo non è stato un gesto repentino, sfuggito alla sorveglianza, ma una fine per inanizione perseguita a lungo, lucidamente o meno. Tuttavia, si tende a negarle la qualità e dignità di uno sciopero della fame, credo senza altra ragione che l’assenza di una motivazione ideologica: quella che nel caso Cospito aveva mobilitato le coscienze. Susan era nigeriana e a quanto pare sofferente mentale, e ciò contribuisce a dequalificare, agli occhi di non pochi, la sua sofferenza agita e manifestata.
Conosco tante persone che sono state in carcere, che sono adesso in luoghi di cura e di dignità.
L’illusione di libertà che crea il carcere è un paradosso che alcuni pazienti mi portano. Libertà anche di morire in una gabbia che spersonalizza ed annienta.
Una persona è stata tanti anni in carcere e ne è uscita con una misura di sicurezza.
Ne è uscita senza documenti.
I documenti identificano, ti permettono di dire “questo sono io”.
Nessuno si è curato di rinnovarglieli, a che sarebbero serviti?
Penso ci sia molto da fare per rendere dignitosa anche la condanna e la pena detentiva.