Vaso di Pandora

Disturbo bipolare e la ricerca neuroscientifica

Il disturbo bipolare (DB) secondo calcoli aggiornati colpirebbe un totale di 50 milioni di persone, e conterebbe per il 50% della prevalenza totale lifetime: dati importanti, anche se da prendere con le pinze per la difficoltà di organizzare ricerche su scala mondiale, in paesi diversi l’uno dall’altro per background culturale quanto per le risorse disponibili e necessarie alla ricerca epidemiologica.

Le difficoltà di chi soffre di disturbo bipolare

Al di là della ben nota fasicità depressiva, maniacale e mista, il disturbo bipolare comporta anche difficoltà cognitive, in sé spiegabili durante le fasi maniacali per la superficialità delle valutazioni e carenza di autocritica, nonché durante le fasi depressive quando l’insufficiente spinta vitale comporta  carente impegno anche cognitivo. Tuttavia, a quanto risulta queste carenze persistono pure durante i periodi intercritici,  e così le difficoltà di inserimento sociale. Queste possono essere collegate alla insufficiente teoria della mente propria di questi pazienti, vale a dire la limitata capacità  – e lo scarso interesse – di penetrare gli stati mentali dell’Altro, negli aspetti cognitivi ed emotivi: tale concetto ha evidente rapporto con l’empatia e con l’intelligenza emotiva (fondamentali, aggiungo, nel lavoro psichiatrico). Tutto da verificare l’intervento dei neuroni specchio nei meccanismi neurofisiologici che sostengono queste capacità.

Le differenze tra disturbo bipolare e disturbo borderline

Tornando alla clinica: può essere a volte difficile la distinzione dal disturbo borderline, con la instabilità che lo caratterizza nei riguardi degli investimenti affettivi.

Tale instabilità rende non rara la difficoltà di un efficace trattamento del disturbo bipolare, anche perché la mutevolezza della condizione clinica rende la formulazione di un piano terapeutico più ardua che nelle condizioni psicotiche di area schizofrenica. E notoriamente gli antidepressivi, gli antipsicotici e gli stabilizzatori non sono privi di effetti secondari. Sono state avanzate, con limitato successo, proposte alternative come la L’EMDR (Eye movements Desensitation and reprocessing ), che migliorerebbe la risposta ai traumi.

Con il progredire della ricerca sono verosimili sostanziali cambiamenti nella nosologia, genetica molecolare, nelle proposte terapeutiche.

La ricerca neuroscientifica

Di fatto, la ricerca neuroscientifica non manca di approfondire i problemi relativi a questa patologia: per citare solo una delle acquisizioni e proposte,  si sono evidenziate alterazioni nella corteccia di quel cervelletto che eravamo abituati a considerare importante solo per aspetti neurologici come l’equilibrio e la coordinazione motoria. E non mancano proposte terapeutiche: il Journal of Clinical Psychiatry annuncia uno studio pilota con la stimolazione magnetica intracranica ad alta frequenza. Ci sarebbero primi risultati incoraggianti. Nulla da spartire con l’elettrochoc: ma tuttavia ci suggerisce strani e ingrati ricordi.

Come sempre, la prassi e la teorizzazione psichiatrica si situano fra la dimensione somatico-organica e quella umanistico–relazionale. Continuerà l’impegno a cercare e approfondire il rapporto fra queste due dimensioni.

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