Commento all’articolo di M. Recalcati apparso su “La Repubblica” il 25 febbraio 2019
Certamente, come ben ci ricorda Recalcati, Freud in “Al di là del principio del piacere” ha dato una formulazione teorica piena al concetto di pulsione di morte.
Ma è bene ricordare che ha toccato l’argomento dell’aggressività auto – ed etero diretta anche in altre opere come “Un bambino viene picchiato”, dove tratta dell’intreccio fra la pulsione erotica e quella etero – e auto aggressiva; o nella sua breve corrispondenza con Einstein sul perché della guerra, in cui il suo interlocutore tratta del complesso feedback in cui la violenza si fa potere e questo crea il diritto, argine che controlla la violenza. Lo stesso Einstein afferma che l’uomo alberga in sé il bisogno di odiare e distruggere, di solito latente ma sprigionabile in determinate circostanze. Freud risponde sviluppando il suo concetto di destrudo, che può formare complicati intrecci con l’Eros. Di questi noi abbiamo ricorrenti esempi nello stupro o in quelle molestie aggressive oggi sotto il fuoco della attenzione.
Klein riprende poi a suo modo il tema, parlandoci dell’invidia come espressione sadico-orale e sadico-anale di impulsi distruttivi.
L’aggressività ha una profonda base biologica, poiché ogni forma di vita animale è predatoria nella sua essenza: non c’è animale che possa sopravvivere senza divorare altri esseri viventi, si tratti di altri animale o di piante. Solo queste possono vivere e crescere senza predare, essendo in grado con la sintesi clorofilliana di ottenere energia dal Sole, senza doverla ricavare scomponendo e digerendo altri esseri viventi. Negli animali è presente una forma di aggressività intra-specifica e meno estrema: la competizione, che non comporta la morte dell’avversario ma la liquidazione della sua sfida.
L’aggressività umana è meta – culturale, e credo ciò vada ricordato senza imputare ai c.d. primitivi una barbarie particolarmente crudele né idealizzandoli in una reviviscenza del mito del “buon selvaggio”: gli atzechi celebravano il “divino liquore della battaglia” (trasparente metafora del sangue versato) e cantavano “solo la morte in battaglia bramano i nostri cuori”. Non c’è bisogno di sottolineare come una retorica di questo tipo sia riapparsa tante volte e infine in quella nazifascista, che non ci è stata portata dai marziani: è un fiume carsico che a tratti riemerge e poi scompare lasciando il posto a forme più “dolci” e controllate.
Notoriamente non le è mancato l’avallo di filosofi che addirittura, come Nietzsche, le hanno offerto premesse teoriche: “Domandatevi se una qualche forma di odio, di gelosia, di caparbietà, di diffidenza, di durezza, di avidità e di violenza non appartenga alle condizioni più favorevoli …. Facendo del male dobbiamo far sentire prima di tutto la nostra potenza; a questo fine infatti il dolore è uno strumento molto più sensibile del piacere … Diventiamo allora duri contro ciò che in noi vuol essere risparmiato, e la nostra grandezza sta anche nel nostro essere spietati”.
Se l’aggressività verso l’altro è cosa che non ci sorprende e che tendiamo a dare per scontata, ci intriga di più quando si rivolge contro noi stessi.
Anche se di fatto la distinzione fra aggressività e auto – aggressività non è così netta: far del male all’altro spesso significa farlo a sé stessi, come nella guerra o anche in una banale rissa. Dostoevski: “se non mi curo lo faccio proprio per cattiveria: il fegato mi duole: ebbene, che mi faccia ancor più male”.
E’ lecito ritenere che questa non cancellabile dimensione nasca dal dato fondamentale che ogni organismo è destinato a morire, per quella progressiva perdita di vitalità di ogni cellula che è inscritta nel suo programma: nel concetto di vita è implicito quello di morte, cioè il suo opposto. Heidegger parla di “essere per la morte”, indicando questa non come mero accidente ma come condizione necessaria del nostro esserci.
Va be’, prendiamoci la vita finchè c’è: di doman non v’è certezza.