Nel momento in cui la minaccia sembra allontanarsi (speriamo) si può aprire uno spazio di riflessione, cui Donatella Di Cesare ci invita. Ci propone il Virus come occasione di ripensamento sulle nostre mitologie sociali, come evidenziatore delle nostre dinamiche collettive.
Indipendentemente da ogni previsione sulla caducità o persistenza dei cambiamenti che ci ha indotti, ci sollecita a pensare ciò che “potremmo essere”, potremmo diventare.
Dopo la peste del quattordicesimo secolo, dopo quella descritta dal Manzoni nel diciassettesimo, dopo la “spagnola” di un secolo fa, ci eravamo abituati a pensare ormai superato il rischio di epidemie devastanti. Il virus Ebola era “roba da Africani”: la doverosa compassione non ci portava a sentirlo come problema nostro. Quanto all’AIDS, per un po’ ci è piaciuto pensare che fosse “roba da omosessuali”; e anche dopo, svanita questa illusione, abbiamo potuto pensare che fosse problema di qualcun altro, di qualcuno che se l’era andato a cercare e in fondo lo meritava.
Con il COVID tutto cambia. E’ inafferrabile, è dovunque, e colpisce la centralità del nostro vissuto. Come sottolinea Di Cesare, colpisce il respiro che è l’immagine stessa della vita: vivere è “tirare il fiato”. E il fiato è l’ànemos, l’anima stessa. “Catastrofe del respiro”.
Di fronte a questa minaccia brutale e onnipresente, scompare la totale fiducia che sia possibile incidere decisivamente sul corso degli avvenimenti, scompare l’illusione di onnipotenza. Ciò riguarda tutta l’umanità, ma l’Occidente in particolare. Certo continuiamo ad essere un’isola privilegiata, ma comprendiamo quanto i suoi confini siano porosi. Può essere questa una occasione di maturazione, di elaborazione depressiva? O prevale una risposta di tipo paranoicale?
Certo il terrore del virus, di questa presenza che proviene da dovunque, si salda con la xenofobia, la paura dell’estraneo. Il virus proviene dalla Cina, la cui potenza già ci minacciava. E se lo portassero i migranti, altra minaccia al nostro privilegiato equilibrio? Cresce la spinta a sottoporli a forme di detenzione amministrativa con scarse tutele giurisdizionali.
Psicopatologie sociali più accentuate, minoritarie ma anche capaci di occupare centri di potere: un complottismo paranoicale che “ha capito tutto”, e che può essere utilizzato dal potere per eludere le proprie responsabilità: colpa non solo della Cina, ma del Messico, della OMS, dei tecnici che esagerano con gli accertamenti. Oppure la tentazione, emersa in certi momenti, di brutali selezioni di fatto, quando i posti nelle terapie intensive difettavano.
E questo ci porta nell’altro capitolo, la messa in crisi dei diritti e della libertà. Abbiamo dovuto rinunciare – per necessità, certo – al fondamentale diritto di riunirci e spostarci liberamente; siamo stati governati per decreto emanato da un sola persona, un po’ come i Romani nei momenti di grave crisi nominavano un Dittatore. L’emergenza comporta un’eccezione sovrana, affidata per l’esecuzione al funzionario di turno. Ma questa governance politico–amministrativa è a sua volta governata dall’ingovernabile.
Ciò è accettato anche perché, secondo Di Cesare, la democrazia liberale non richiede partecipazione ma protezione, immunità: parla di “democrazia immunitaria”. Ma questa diviene possibile solo escludendone i reietti. Immunizzarsi significa anche anestetizzarsi. Dove prevale l’immunità, vien meno la comunità extraistituzionale, si abolisce l’altro. Si muore da soli. Si chiudono ulteriormente i confini. Si è profilato in certi momenti un governo degli esperti, una tecnocrazia che è anche fobocrazia, una cultura della paura. Io credo che condividere ciò non significhi certo negare la necessità di seguire le norme proposte o imposte: ma accorgersi che si apre o si acutizza un conflitto fra sicurezza e libertà.
In questa situazione si è sempre più tracciati, in un “regime di visibilità permanente”, a stento tenuto sotto controllo dalle varie norme sulla privacy. Google, bontà sua, mi tiene informato dei miei stessi spostamenti; dubbio privilegio per me. A ciò collegata, una brusca accelerazione del prepotere dell’incontro digitale, tendenza che era già in atto ma non in questa misura. Per contro, le manifestazioni affettive in presenza fisica e (forse) anche quelle sessuali vengono fortemente condizionate.
Il virus “rallentista” (così si esprime Di Cesare) ha la meglio sull’accelerazione, sull’ossessione del rendimento che ha portato a coincidere libertà e costrizione, sull’imperativo di crescita ininterrotta del PIL. Temporaneamente, certo: ma forse può aiutarci a mettere in discussione il credo di una crescita ininterrotta, di cui è lecito dubitare che sia possibile a tempo indefinito, e che ne valga davvero la pena.
C’è qualcosa di irreversibile in questi cambiamenti? Nelle precedenti pestilenze ciò è accaduto.