Si ripropongono nomi che sono stati idoli di un’epoca, anche in un contesto di confronto intergenerazionale, e che oggi sono un po’ in penombra. Che cosa resta vivo oggi del loro messaggio? Senza pretendere una risposta, val la pena ripensarlo. Quindi l’articolo mi ha invogliato a leggere il citato volume appena uscito “Non nascondermi la tua pazzia. Conversazioni”, di queste due (ex?) icone.
C’è in quell’orientamento di pensiero e di azione l’attenzione critica al problema della aggressività, anche se non si pretende di poterla eliminare. Si riconosce l’aggressività insita nel cibarsi, che è sempre una predazione, anche se non si giunge a una scelta decisamente vegetariana. Con analoga elasticità, si dichiara lecito picchiare soltanto se spinti dalla rabbia, riconoscendo – con ricerca di autenticità – che questa fa parte di noi, ma non razionalizzandola e legittimandola in qualche modo: come invece è accaduto nella tradizione WASP – la dominante classe White Anglo-Saxon Protestant – che si giudica inquinata da una sorta di Spirito del Male. È raccomandata la resistenza non violenta alla aggressività istituzionale: benvenute l’irriverenza, l’irrispettosità, il rifiuto di obbedienza. Ne fa parte la difesa di certi testi letterari contro le accuse di oscenità, un tempo non rare.
Forte, in questo contesto, la critica al capitalismo: “i capitalisti profferiscono napalm e denaro in valigie verdi… bevono gin e whisky sugli aeroplani ma lasciano affamare milioni di indiani bruni”. Fermissima, come ben sappiamo, la condanna della guerra in Vietnam, che al di là della contingenza storica si articola in una riflessione generale sulla guerra. “La guerra è linguaggio”, poiché sua necessaria premessa è una propaganda demonizzante il nemico; e coerentemente il poeta dichiara: “Io qui proclamo la fine della guerra”. La cosa, sappiamo, almeno per una volta ha funzionato: il fronte interno agli USA si è schierato in modo tale da imporre la cessazione di un conflitto senza vittoria.
Ma non va meglio con i comunisti: “non hanno da offrire che guance grasse e occhiali e poliziotti bugiardi”. Ginsberg prende spunto da un ricordo personale: nel ‘65 è stato eletto “Re di Maggio” in una festa popolare che si teneva o si tiene annualmente a Praga, e quindi ha destato sospetti nella polizia che lo ha arrestato – da ubriaco e se ne vanta – ed espulso. Rievoca la vicenda in una lirica che diventa una sorta di Manifesto del movimento: “io sono il Re di Maggio, il quale è il potere della gioventù sessuale…è attività in eloquenza e azione in Amour… è i capelli lunghi di Adamo… è la vecchia poesia umana… va a letto con teenagers ridendo”. Tuttavia non si fa illusioni circa la possibilità di offrire una qualche solida alternativa ideologica, politica, fattuale: “Io sono il Re di Maggio, però paranoico, perché il Regno di Maggio ha troppa bellezza per durare più di un mese”.
Ostile a ogni potere costituito o che tenda ad affermarsi con la forza (incluso, sia detto di sfuggita, quello islamico), proclama il credo della gentilezza: devi essere gentile col tuo Io… con questo luogo… con tua madre e tuo padre… e anche con persone che non approvi: il vicino ottenebrato dalla TV… i politici complottanti…
C’è inesausto desiderio di cambiamento: “come è sciocco fermarsi, finire, arrugginire non lucidati… “. Ne è espressione anche il desiderio di viaggiare, di spostarsi incessantemente come il Kerouac di Sulla strada. Protagonista la motocicletta o l’automobile, e ciò mi pare in qualche modo paradossale, perché questi sono tipici prodotti del preteso “primato dell’Occidente”, della rivoluzione industriale, del progresso tecnico, che pure vengono fortemente criticati.
Cambiamento vuol dire anche sperimentazione, senza tuttavia che ciò comporti una precisa adesione ad una ideologia; a meno che si consideri ideologico appunto il desiderio di sperimentare, di mettere in discussione, di criticare. Ginsberg: “tutto ciò su cui facevo affidamento era tutto di cartapesta”. Connesso a questo atteggiamento il notorio interesse per le sostanze psicoattive e per la loro capacità di aprire a esperienze insolite. Percezione e fantasticheria si intrecciano così in modo inestricabile: si parla di fascino lisergico, con rivalutazione dell’esperienza allucinatoria. C’è da dire che anche nel pensiero psichiatrico attuale il carattere sicuramente psicopatologico dell’allucinazione è rimesso alquanto in discussione: qualcuno lo depotenzia parlando di “uditori di voci”.
Ovviamente i due suggeriscono l’abolizione delle leggi antidroga; e coerentemente – dal loro punto di vista libertario – sono contro i controlli sulle armi: posizione a noi meno accetta e che obbiettivamente li fa alleati della lobby.
C’è in quel movimento di idee il riconoscere che facciamo parte di un tutto, in una sorta di aspirazione mistica (che fra parentesi ci incoraggia a rispettare gli animali e ad apprendere da loro). È connesso a ciò l’interesse a presunte percezioni extrasensoriali e alle ben più dimostrabili percezioni subliminali. Ma soprattutto alle pratiche di meditazione e anche a quelle esorcistiche sciamaniche. Queste vengono ampiamente descritte, e ne emergono scenari che ricordano la sauna, senza che ciò li squalifichi: è possibile che la sauna, che ha origini oscure e antichissime, sia proprio una laicizzazione ed evoluzione (o involuzione) di questi esorcismi. Questi avevano la finalità di raggiungere una difficile piena sincerità con sé stessi e gli altri: “Non puoi conoscere Satana o soggiogarlo o avere a che fare con lui se non conosci il suo sistema, se non lo vedi, se non lo identifichi, se non gli dai contorni definiti”. Ciò richiede una sorta di alleanza terapeutica con l’esorcista.
Non si può non pensare quanto ciò ricordi alcuni fondamentali aspetti della psicanalisi e in particolare il suo invito a “pensare” la sofferenza. Ma forse sarebbe troppo chiedere a questi autori di riconoscere una qualche affinità di fini e di mezzi: “Gli psichiatri non ci capiscono niente”; e secondo Burroughs nel malessere mentale intervengono spiriti maligni cristiani! In qualche modo viene rispettato Laing (et pour cause!): lo si considera psicanalista, benché come tale fosse alquanto atipico e ispirato semmai alla fenomenologia; si parla di una sua seduta condotta da ubriaco (aveva problemi di alcoolismo) e conclusasi in una rissa col paziente!
Ma c’è da aggiungere che i due non si contrappongono frontalmente a concetti maturati in ambiti culturali più istituzionali: si mostrano interessati, ad esempio, al concetto di meme, dell’idea propagantesi “come virus”, proposto da Dawkins. E il pensiero psichiatrico attuale – almeno nei suoi orientamenti che ci auguriamo prevalgano – condivide con la cultura Beat alcuni atteggiamenti di base: soprattutto il rifiuto di un troppo pervasivo “esprit de géométrie” e di una troppo netta scissione fra mente sana e mente psicotica.
E non si può dimenticare che quel mondo, con le sue ingenuità e i suoi eccessi, ha fatto parte di quel complesso movimento culturale contestativo che, fra l’altro, è stato il background per l’affermarsi di un nuovo modello di intervento psichiatrico.