L’ultima provocazione di Vinterberg
Con il suo ultimo film “Un altro giro” (Druk 2020), Vinterberg costruisce un’opera magistrale con cui entra nell’animo umano spazzando via convenzioni, giudizi, pregiudizi, attaccando con misura e arte la società contemporanea. Quattro amici, insegnanti, alle prese con il mondo della scuola e le loro vite quotidiane. Sono benestanti, integrati, competenti. Sono persone normali, dicono cose normali e vivono esistenze terribilmente normali. Ma qualcosa non funziona. In uno dei loro incontri si trovano a confrontarsi con le difficoltà dell’insegnamento e con le scarse motivazioni che riescono a generare tra i loro studenti. Allora decidono di utilizzare l’alcol, in modo scientifico, rifacendosi ad una bizzarra teoria (del tutto reale) di uno psichiatra norvegese, Finn Skårderud, che sostiene che con una alcolemia basale di 0,05% si vive meglio. L’esperimento funziona e cominciano a trarre benefici dalla sbronza controllata. Ovviamente la questione si complica e sembra prepararsi la tragedia. Che arriva. Ma non attacca il punto sostanziale che ha mosso la trama. I personaggi di Vintenberg escono comunque cambiati dall’esperimento. Il desiderio è sano, a prescindere dal mezzo. Come dire: se non sei felice usa qualsiasi cosa, anche l’alcol, ma non ti rassegnare ad una vita dimessa.
Persino allo studente che non ce la fa a reggere la sfida delle prestazioni, con un velato rimando, forse l’ho visto solo io, all’Attimo fuggente, la soluzione del professore, “bevi un goccetto” prima dell’esame, diventa possibile. Dietro alla soluzione, l’alcol che rischiara, attiva, euforizza, c’è una società desolata, svuotata di umanità, di senso, un andare avanti senza meta, il lasciarsi andare di Thommy con il suo cane e la barca, il lasciarsi e non vedersi delle coppie, dei genitori e figli, dei professori e degli studenti. Allora è meglio la sbornia, la corsa sfrenata con le casse di birra, la trasgressione sociale, le bottiglie nascoste ovunque, pranzi e cene dove l’alcol straborda. Alla fine il magico Mads Mikkelsen, l’attore protagonista, ci fa sognare che si può uscire cambiati senza diventare alcolisti, si può tornare a ballare, vivere le proprie passioni, lanciarsi nella vita senza paura. E con un tuffo sospeso il grande regista, che ha vinto con questo film forse l’oscar meno noto della storia del cinema, ci lascia. Pieni di domande, sorrisi e … tanta voglia di bere.
Pare che lo psichiatra non avesse detto sul serio. E anche il film, che non ho avuto il piacere di vedere, è presentato da Federico Russo un po’ come un gioco, che però ci dà una nuova occasione per riflettere sul bisogno dell’uomo di drogarsi: un po’ lo è di tutti noi, anche se i modi di gestirlo sono ben diversi da persona a persona: dalla rigida astensione, alla tazzina di caffè e bicchier di vino, fino all’abuso e alla tossicodipendenza grave.
Da cosa nasce? lasciando da parte qui le mille motivazioni individuali, nonchè quelle socioculturali che pare interessino di più il regista, credo sia uno dei tanti aspetti del generale bisogno dell’uomo di andare oltre, di cercare qualcosa di “altro”, di non accontentarsi; ne aveva trattato ampiamente Lacan col discorso della “mancanza ad essere” e delle sue radici relazionali.
Esso ha preso e prende mille diverse facce, fin dalla spinta migratoria che ci ha portato tanti millenni fa fuori dall’Africa; per arrivare all’inesausto spirito di ricerca prescientifica e scientifica; alla rivoluzione industriale; al fascino dell’immaginario – visionario (e magari all’adulterio). E’ lui che essenzialmente “fa” l’uomo come essere culturale e storico. Una esasperata consapevolezza di ciò ha portato, qualche decennio fa, una generazione di scrittori a connotare positivamente l’esperienza psichedelica come porta a più ampi stati di coscienza.
Il regista riprende il tema che paiono simpaticamente leggeri: è possibile giocare con la sostanza psicoattiva, e meno male …
Devo correggermi: si parla anche di tragedia. Gioco sì, ma come tanti giochi ha i suoi rischi…