L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) è stato l’istituzione totale per eccellenza: manicomio e carcere insieme. La malattia richiedeva la cura obbligatoria e la pena poteva essere infinita. La negazione della responsabilità precipitava il folle all’inferno. Il malato era considerato pericoloso a sé e agli altri e quindi veniva separato dalla società in strutture apposite e sepolto sotto un doppio stigma.
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Io sono stato negli anni scorsi sostenitore di una soluzione drastica, che ha avuto consensi, ricordo
quello autorevole di Michele Coiro magistrato garantista e che da Capo del D.A.P. espresse questa
convinta adesione in una audizione in Parlamento, ma anche diverse obiezioni: quella di eliminare
alla radice il nodo della non imputabilità per gli autori di reato prosciolti per vizio totale di mente,
ritenuti incapaci di intendere al momento del fatto.
L’incapacitazione, in teoria determinata in un momento, al momento del delitto, si riverberava sul
futuro e veniva affidata a perizie mediche e alle decisioni di giudici. Matto e pericoloso era il
binomio su cui si fondava una teoria positivista e organicista che ha avuto nel pensiero di Lombroso
la manifestazione più compiuta. Oggi la teoria del malato delinquente da isolare è sostituita dalla
concezione del malato da curare e comunque custodire.
È del tutto evidente che la scelta di affermare anche un barlume di responsabilità, nella mia proposta
e visione, non comportava il carcere come soluzione unica o da preferirsi, bensì privilegiava una
vasta gamma di misure alternative alla detenzione, le più adatte rispetto alla condizione personale del
paziente-reo.